[lang_all]Il perchè di un viaggio
L’occasione di andare a trovare un amico in Argentina si è trasformata in un viaggio senza paura in Patagonia, sulle tracce dei Chatwin, i Sepulveda e, non ultimi, i Jovanotti.
Il desiderio di scoprire “l’unico luogo giusto per sfuggire alla prossima distruzione nucleare” (In Patagonia – B. Chatwin), una natura incontaminata in grado di trasmettere e suscitare emozioni fortissime, fatta di orizzonti sconfinati, montagne e cordigliere imponenti, ghiacciai immensi, animali.
Il richiamo del viaggio, il desiderio di essere alle soglie del 2000 nel “sud più a sud”, la continua sfida con se stessi, l’amore per uno sport e un mezzo, il ciclismo e la bicicletta, il lasciarsi scivolare senza fragori e frastuoni, sono alcune risposte al perché del viaggio in Patagonia.
Patagonia1999 in pillole
Giorno 1 – 17/12/1999
Roma – Buenos Aires (trasferimento aereo)
Giorno 2 – 18/12/1999
Buenos Aires (visita alla città e “movida”)
Giorno 3 – 19/12/1999
Buenos Aires San Carlos de Bariloche (trasferimento in aereo)
San Carlos de Bariloche El Bolson (inizio viaggio in bici – ASFALTO 120 km)
Giorno 4 – 20/12/1999
El Bolson – Lago Bivadavia (regione dei laghi) (bici – ASFALTO/STERRATO 115 Km)
Giorno 5 – 21/12/1999
Lago Bivadavia – Esquel (regione dei laghi) (bici – STERRATO 75 km)
Esquel – Comodoro Rivadavia (trasferimento aereo)
Giorno 6 – 22/12/1999
Comodoro Rivadavia – Gobernador Gregores (trasferimento aereo)
Gobernador Gregores – Lago Cardiel (bici – STERRATO 85 Km)
Giorno 7 – 23/12/1999
Lago Cardiel (sosta)
Giorno 8 – 24/12/199
Lago Cardiel – Tres Lagos (bici – STERRATO 95 Km)
Giorno 9 – 25/12/1999
Tres Lagos – El Calafate (bici – STERRATO/ASFALTO 165 Km)
Giorno 10 – 26/12/1999
El Calafate (sosta con visita Ventisquero P. Moreno)
Giorno 11 – 27/12/1999
El Calafate – Puerto Natales (Cile) (trasferimento in pullman)
Giorno 12 – 28/12/1999
Puerto Natales – Punta Arenas (bici – ASFALTO 260 Km)
Giorno 13 – 29/12/1999
Punta Arenas – S. Sebastian (Argentina) (bici – STERRATO 140 Km)
Giorno 14 – 30/12/1999
S. Sebastian – Tolhuiin (bici – ASFALTO 200 Km)
Giorno 15 – 31/12/1999
Tolhuin – Ushuaia (bici – STERRATO/ASFALTO 105 Km – fine viaggio in bici)
Giorno 16 – 01/01/2000
Ushuaia (sosta)
Giorno 17 – 02/01/2000
Ushuaia – Puerto Natales (trasferimento autostop/pullman)
Giorno 18 – 03/01/2000
Parque Torre de el Paine (trekking)
Giorno 19 – 04/01/2000
Parque Torre de el Paine (trekking)
Puerto Natales – Ushuaia (pullman)
Giorno 20 – 05/01/2000
Ushuaia (sosta)
Giorno 21 – 06/01/2000
Ushuaia – Buenos Aires (aereo)
Giorno 22 – 07/01/2000
Buenos Aires – Roma (trasferimento aereo)
Fine millennio alla fine del mondo
Mappa del viaggio in Patragonia
“A papà”
Giorno 1, 2: Roma – Buenos Aires (trasferimento aereo) e visita alla città e “movida”
Parto il 17 dicembre 1999, disattendendo ogni scaramanzia sul numero 17, peraltro confermata dalla ampia disponibilità di posti all’interno del Jumbo della Aerolineas Argentinas. 14 ore di volo “et voilà” in un attimo siamo a Buenos Aires; siamo nell’altro emisfero, il freddo dell’inverno italico ha lasciato posto al caldo di quello australe. Ad attendermi in aeroporto la “novia” (fidanzata) di Andrea, che mi raccoglie insieme alla sacca contenente la bici e il resto del mio bagaglio, composto da due sacche da bici e uno zainetto. Dirigiamo subito verso la festa di addio del mio amico Andrea, che di li a poco sarebbe tornato in Italia. Un inizio decisamente festaiolo, che prosegue con visita alle 4 di notte ad una delle più famose tangherie di Buenos Aires, La Estrella, con tanto di orchestra in frack e splendidi esemplari di bellezze indigene, dal portamento regale. Alla vigilia di un viaggio in solitaria in Patagonia la tangheria può innescare pericolosi ripensamenti!!! Prendo contatto con un letto alle 5.30 di mattina, ma alle 08.30 sono già sveglio, jet-leg, eccitazione e “non si può dormire”, costituiscono una valida alternativa alla sveglia, sigh… Trascorro la giornata scarrozzato per Buenos Aires dai miei gentili ospiti …
Buenos Aires – Centro città
Buenos Aires – Parque de la Recoleta
Buenos Aires – Puerto Madero
Buenos Aires – Paseo Alem y Cordoba
…per concludere la giornata a dormire in macchina alle 4 della mattina perchè‚ a Buneos Aires si festeggia ogni sera/notte, ma soprattutto le feste non finiscono mai prima dell’alba.
Giorno 3: Buenos Aires – S. Carlos de de Bariloche (trasferimento aereo) – El Bolson (inizio viaggio in bici) ASFALTO
Con 6 ore di sonno in corpo, accumulate in ben due giorni (sigh, sigh!), alle 08.30 della mattina del 19 dicembre 1999 vengo accompagnato da Andrea e Conni all'”aeroparque” dei voli nazionali …
Buenos Aires/Aeroparque – Conni, Andrea, sacca bici e bagagli
… da dove prendo il volo per S. Carlo de Bariloche, località a ridosso delle Ande, molto apprezzata e frequentata dagli argentini sia d’estate che d’inverno per l‘indubbia bellezza del luogo.
Buenos Aires – Vista aerea
Da S. Carlos de Bariloche inizierà il viaggio in bici sognato e programmato da un anno. Mentre sorvolo la “pampas” la osservo e sembra un mare immenso dalle tonalità variabili di marrone inondato dalla luce di un sole potente. In poco più di un’ora sopraggiungo a S. Carlos de Bariloche, sonno e stanchezza non si fanno sentire, mentre l’emozione di iniziare il vero primo viaggio “no fear” in bicicletta tiene desti tutti i sensi. La sacca con la bici e le due borse da bici le ho imbarcate, le ritroverò alla consegna bagaglia degli arrivi, mentre ho con me lo zainetto con agganciato il casco, sono visibilmente eccitato e felice e questo mi attira le attenzioni e le domande di un robusto argentino sul dove andrò e che strade farò. “Vado a Ushuaia, a la fin de el mundo!” “Suerte!”.
Da adesso in poi avrò 3 settimane per visitare la Patagonia e la Tierra del Fuego, 3 settimane sono nulla, se si pensa che l’Argentina da nord a sud misura circa 4500 km e la Patagonia sola ne misura 2000. In questo spazio sconfinato da percorrere in bici, la densità abitativa è pari allo 0.8 per Km quadrato, i circa 40 milioni di abitanti, di un paese 9 volte l’Italia, si concentrano a Buenos Aires; nella sola provincia di Chubut, grande quanto l’Italia, non vivono 65 milioni di abitanti, bensì 300.000! In Patagonia non andremo a fare vita sociale! Grandi distanze, scarsa presenza di esseri umani, questo è il viaggio, il nostro viaggio.
San Carlos de Bariloche – Aeroporto
Sbarco, l’aerostazione assomiglia ad un cottage svizzero e all’interno l’ordine e la calma regnano sovrani, siamo lontani dagli affollati e rumorosi aeroporti europei, mete di centinaia di voli al giorno. Cerco un posto tranquillo al di fuori della aerostazione dove rimontare la bici e disporre il bagaglio sul portapacchi posteriore; non sono uso avere bagagli collocati sull’anteriore per conservare in discesa la massima guidabilità, mi aspetteranno “ripios” (strade sterrate) piuttosto lunghi e preferisco non rinunciare alla velocità in discesa.
San Carlos de Bariloche – Pronti!!!
Indossato l’abbigliamento tecnico da bici, si parte, le prime pedalate mi fanno subito capire che non sarò solo in questo viaggio. Compagno inseparabile sarà il vento, che soffia con una certa costanza e intensità da ovest verso est (dalla Cordigliera verso l’Oceano Atlantico). Il cielo è blu cobalto, nuvole viaggiano veloci in cielo (“ci sarà vento anche lassù?”), la Cordigliera Andina su un lato e sull’altro il lento digradare dei rilievi verso la pampas sconfinata, sorvolata pochi istanti prima. Dopo una decina di Km arrivo al paese di S. Carlos de Bariloche, la coreografia è da paese di montagna, case con tetti spioventi, negozi sportivi, ed anche se non è stagione per la neve e lo sci, si capisce che d’inverno a S. Carlos sono in tanti a praticarlo. Sosta al supermarket, per mangiare e rifornirsi di tutto quello che mi servirà per le prossime ore da trascorrere a cavallo della bicicletta, ogni volta che penso a quanto tanto spendo per alimentarmi durante un viaggio in bici, mi rammento che il mio carburante è fatto di calorie che introduco nel mio corpo attraverso la cavità orale ed in definitiva il “mio motore” è molto ecocompatibile. Stivate le provviste, calorie dal peso ridotto, parto, direzione sud, tappa finale Esquel, a poco più di 300 km. I primi 140 km li affronto tutti su asfalto per giungere verso le 9 di sera in un camping alle porte di El Bolson.
San Carlos de Bariloche – Scorci lacuali
San Carlos de Bariloche – Lupa, Romolo e Remo
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Direzione El Bolson – Cielo terso e…
Direzione El Bolson – Strada con poco traffico
Arrivo al camping ovviamente stanco, è il primo giorno e ho trascorso 9 ore in sella, su una strada con falsipiani sufficientemente impegnativi per chi ha dormito appena due ore la notte prima. La strada però è stata decisamente “suave” nel suo svolgersi fra laghetti, torrenti, vegetazione e fescura di montagna. Colpisce subito l’occhio la mancanza di abitazioni lungo il corso della strada e nel paesaggio circostante. Arrivo rapidamente alla conclusione, che l’Argentina non è la Grecia, dove ero stato in bici durante l’estate appena trascorsa. Nonostante la fatica, sono felice, pervaso da un senso di profonda libertà. Sono a 15mila km di distanza da casa, ma nonostante la distanza mi sento perfettamente a mio agio, sono dove ho desiderato essere da più di un anno e non sento il bisogno di proiettarmi altrove, ma vivo intensamente ogni attimo.
Il camping in cui mi fermo non ha in realtà ancora aperto, in quanto la stagione turistica comincia dai primi di gennaio “la gente trascorre il Natale in famiglia, per poi cominciare a gennaio a viaggiare” mi spiega il titolare del camping che insieme alla figlia sta terminando i preparativi per l’apertura. Padre e figlia, vedendomi seduto sui gradini di accesso all’area uffici mi “regalano” la possibilità di potermi fermare la notte in un bungalow con tanto di comodissimo letto a castello con piumini come nuvole, e doccia calda. Il titolare mi offre ospitalità alla sua tavola, e la figlia mi accompagna al bungalow:”ti accendo il boiler così fra 20 min. avrai anche l’acqua calda, poi quando hai finito torna d mio padre così mangiate” “Ti amo” penso io, in preda ad una crisi di euforia. Finita la doccia mi avvedo che l’esposizione prolungata al sole delle braccia ha avuto effetti arrossanti “domani compreremo la crema protettiva”. Sento un po’ di indurimento alle gambe, ma non indugio oltre, dirigo verso la residenza del mio gentile ospite dove mi aspetta una lauta cena a base di arrosto, patate al forno, salame, formaggi, pane, vino e frutta, accompagnata da una voglia di entrambi i commensali di comunicare l’un con l’altro e parlare di tutto.
Per tutto il viaggio la voglia “sfrenata” di comunicare e condividere le emozioni, si accompagnerà con la solitudine del pedalare in una terra “solitaria”.
La nostra chiacchierata sul mondo, i suoi pregi e difetti, si conclude in gloria, con un ultimo bicchierino di vino. Ci congediamo l’un con l’altro dandoci appuntamento per la colazione del giorno dopo. Nei 200 metri di passeggiata per giungere al mio bungalow, il silenzio, le stelle, e alcune riflessioni da primo giorno di viaggio mi riempiono il cuore. A volte la nostra “fisicità” non basta a contenere tutto quello che proviamo e viviamo, a volte la realtà diventa sogno! Il letto mi accoglie abbracciandomi con un piumone alto quanto un palmo di mano, la temperatura si è abbassata notevolmente; per allenarmi alla Patagonia e alle sue basse temperature, per un anno a casa avevo vissuto senza riscaldamento, abituando il fisico e la mente al freddo.
Dormo profondamente, il mio fisico non ha dimenticato le ultime due notti “brave” trascorse a Buenos Aires e il primo giorno di viaggio.
Giorno 4: El Bolson – Lago Bivadavia (bici – regione dei laghi) ASFALTO-STERRATO
Sveglia alle 07.00, combatto con il mio alter ego per restare ancora un po’ sotto le coltri, ma dopo un quarto d’ora di “ancora un secondo, dai stiamo così bene qui sotto …” abbandono Morfeo e il suo alleato, il letto. Manca poco alle 08.00, me la sono presa comoda, ma io sono pronto e la bici è pronta. Le gambe le sento un po’ legnose, ma è normale la mattina e dopo una giornata come quella di ieri. Colazione in una sala vuota, ma inondata dai raggi del sole. Pane, caraffe di latte e caffè, marmellate, burro, ecc. mi fanno desiderare di restare un altro giorno, ma ahimè “devo” riprendere il mio viaggio, ma non mancherà occasione più avanti di essere meno turisti e più viaggiatori. Indugio un po’ seduto al tavolo, tutta quella luce che sta “colorando” alberi, terra e cielo e uno spettacolo. “I miei occhi hanno visto cose che voi umani non vedrete mai” dirò ai miei amici al ritorno, ed in effetti la mia condizione di viaggiatore a cavallo di una bicicletta è tale da consentirmi di vivere il territorio ad una velocità più vicina a quello che è il ritmo naturale di incedere degli umani.
“Algo mas?” il mio amico mi risveglia dalle mie riflessioni. Regolo il conto, saluto, ringrazio e riparto. Fa già caldo e sono solo le 08.30 di mattina. Il sole non è ancora alto in cielo, ma si fa sentire sulla pelle, decido di acquistare la crema protettiva, per non rosolarmi ulteriormente. Mi cospargo la crema sulle parti scoperte, braccia, gambe e viso e tutto unto e sudato riprendo a pedalare, sono andato un po’ lungo anche perché ho dovuto fermarmi in un negozio di bici, ferramenta, officina meccanica (tutto in uno) per sistemare un problema con un distanziale sul manubrio, che il giorno prima avevo sistemato alla bene e meglio. Devo percorrere poco più di 160 km per arrivare a Esquel il giorno seguente alle 14.00, orario di partenza dell’aereo che mi porterà verso sud, al confine settentrionale della Paragonia. Adesso sono ancora nella parte comoda del mio viaggio, una delle c.d regione dei laghi a ridosso delle Ande.
Direzione Esquel – Si scende!
Direzione Esquel – Uh? Pista ciclabile?
Direzione Esquel – Si sale!
Esco da El Bolson e comincio ad inerpicarmi su per una leggera salita costeggiata da un verdeggiante manto boschivo. Sulla strada insieme a me poche vetture e intorno pochissimi segni di insediamenti umani, anche se la fitta vegetazione ha suggerito ad alcuni l’apertura di campeggi con tanto di tavolini all’aperto con gente seduta intenta a sorseggiare bibit fresche, che per un ciclista alle prese con variazioni altimetriche, pulsazioni, respiro affannato, rappresentano una notevole tentazione per una sosta. Procedendo verso sud, la folta vegetazione inizia a lasciare il posto ad un panorama decisamente più brullo, anche se la strada continua ad avere variazioni altimetriche sensibili, si sale e si scende a meraviglia! Percorrendo un tratto in salita mi accorgo della presenza sul bordo della strada di un bizzarro bungalow in legno arrichito con un paio di tavolini ricavati da tronchi di legno, con una insegna “Cerveza” (birra) campeggiante in tutta la sua essenzialità. Dall’unica finestra del bungalow/autogrill si affaccia un ragazzo con tanto di martello, indicante che l’apertura è imminente, con cui è subito amicizia.
Direzione Esquel – Autogrill locale, cerveza fatta in casa!
“Che cosa vendi?” “Vendo birra fatta in casa e torte” “Hai fette di torta?” “Qui no, ma sotto in casa si e ti faccio assaggiare anche la birra fatta in casa”. Chiude con un robusto pannello di legno “l’autogrill” e mi invita a seguirlo nella casa poco sotto il bordo della strada. 10 anni passati viaggiando lontano dall’Argentina dei Generali, per lo più in Europa, e poi la decisione di stabilirsi in mezzo al nulla e financo un po’ nascosto in Patagonia. La casa è nascosta in mezzo al bosco e di fianco al ruscello, il terreno l’ha pagato poco e “se vieni ad abitare in Patagonia ti danno anche degli incentivi”. La casa è in pietra e legno, ed è completamente immersa nel verde del bosco che la rende invisibile agli sguardi dei viandanti. Entriamo, il pavimento è in leggera discesa e irregolare, radio vecchie, libri, quaderni, mucchi di vestiti, letti, coperte, tavoli, panche, quadri, fotografie … non ci sono porte, è un unico ambiente ad S. “Ecco, questa la faccio io”, estrae un bottiglia di vetro dal colore marrone, senza etichette, contente la famosa “cerveza”. La stappa, me ne versa un bicchiere ed il colore e corposità sono decisamente diversi rispetto ad una normale birra chiara; se ne versa un bicchiere anche lui, mi indica il tavolo dove accomodarsi e mi taglia una fetta di torta, che mi serve in un piatto con forchetta. E’ tutto buonissimo: torta, birra, e compagnia diventano un tutto armonico nel mio stomaco. ” … sai adesso con i bambini abbiamo deciso di fermarci un po’, poi vedremo, per adesso ho deciso di mettermi a vendere la birra fatta in casa e le torte preparate da mia moglie e vediamo come va”.
Ringrazio per l’ospitalità, cerco di pagare ma capisco che sono stato ospitato con un “no gracias”. Riparto, felice di aver speso il mio tempo conoscendo, entrando in casa, venendo ospitato, con la convinzione che “anche questa è Patagonia e questo è il viaggio”.
Direzione Esquel – Inizia lo sterrato
Arrivo al bivio dopo Epuyen, a sinistra la strada asfaltata per arrivare a Esquel, a destra quella sterrata, imbocchiamo quella sterrata, anche se prima di iniziare a percorrerla devo cambiare i copertoni della bici, con quelli da fuori strada, tacchettati, in quanto fino ad ora avevo viaggiato con copertoni semilisci e più fini, utili per una maggiore scorrevolezza su asfalto. Inizia il viaggio sullo sterrato! Per Esquel sono poco più di 140 km e ho tutto il pomeriggio e sera di oggi e la mattina di domani per arrivarci, conto di farcela. Per i primi metri devo riprendere le misure alle buche, al terreno un po’ ghiaioso/sabbioso, e al vento, che è tornato ed anche contrario al senso di marcia, non fortissimo, ma particolarmente fastidioso allorquando sospinge verso di me la polvere sollevata dalle poche macchine in transito. La vegetazione si è fatta più rada, anche se il verde continua ad essere la tonalità dominante. Il diradarsi degli alberi, evidenzia sulla mia destra la maestosità lontana della Cordigliera. Ho preso il ritmo, l’andatura è decisamente buona, e la strada scorre abbastanza in piano, con qualche attraversamento di bovini di tanto in tanto.
Direzione Esquel – Il famoso “ripio”
Direzione Esquel – Attraversamenti
Arrivo a sera, poco prima del calare della notte, alle porte di un campeggio all’interno di una fitta boscaglia, che grazie alla vicinanza dei laghi del Parque Nacional los Alerces ha ripreso vigore e possesso di ogni angolo di terra. Trovo sistemazione in un bungalow molto confortevole, doccia, lavaggio e stesura degli indumenti da bici e pasto abbastanza rapido in quanto la mattina seguente è mia intenzione svegliarmi poco prima delle 6.00, in quanto ho la sensazione di essere a una 70ina di chilometri da Esquel, ma non la certezza, e siccome gli aerei non aspettano, sarebbe il caso di non ritardare l’arrivo all’aeroporto di Esquel!!
Giorno 5: Lago Bivadavia – Esquel (bici – regione dei laghi) STERRATO – Comodoro Rivadavia (trasferimento aereo)
Come da programma, la mattina mi alzo poco dopo le 6.00, in lotta con me stesso, come tutte le mattine a seguire, e dopo circa mezz’ora di preparativi, sono di nuovo in strada. Dopo pochi chilometri la strada ci dischiude uno scenario lacuale mozzafiato, la strada sembra finire dentro il lago Futalaufquen, luce, colori, orizzonti e vento fanno il resto della coreografia da sogno.
Direzione Esquel – Una curva e all’improvviso …
Direzione Esquel – Il lago Futalaufquen
La strada comincia a salire dolcemente lungo il bordo del lago e siamo in mezzo ad una fitta boscaglia che avvolge con le montagne, che fanno da sponda, la superficie lacuale. Il paesaggio è incontaminato, unica contaminazione, il taglio nel fianco della montagna ad opera della strada che stiamo percorrendo. Troviamo un camping dove ne approfittiamo per un “dasayuno” (colazione ndr.) che vista la partenza all’alba ero stato costretto a saltare nel camping di partenza. Con me un signore, appassionato di pesca, che tutti gli anni trascorre un periodo di vacanza al lago, … come lo capisco, vista l’armonia di questa natura incontaminata. Mi rifornisco di zuccheri, aminoacidi, carboidrati, anche perché le pedalate di prima mattina hanno richiesto anche energie per proteggersi da una temperatura piuttosto bassa, siamo pur sempre in montagna e a ridosso della Cordigliera, non ce lo dimentichiamo!
Congedatomi dal mio compagno di “merende”, riprendo la strada e poco prima delle 11.00 abbandono il Parque Los Alerces, immettendomi nuovamente su asfalto, mancano ormai poco meno di 20 km per giungere ad Esquel, dove mi fermo per un pranzo a base di bistecca gigante e purè, yummmm, che bontà, avrei tanta voglia di accompagnare il tutto con una birra, ma devo ancora fare la strada per l’aeroporto e visto il sole, il caldo (che è arrivato) e anche un po’ di stanchezza, vi rinuncio.
Esquel – Verso l’aeroporto, incroci ferroviari
Esquel – Il “bus” alato
Arrivo all’aeroporto, posto a una decina di km da Esquel in anticipo rispetto all’orario previsto, e ho tutto il tempo di smontare e imballare la bici per il trasferimento aereo da Esquel a Comodoro Rivadavia, città sulla costa atlantica, che raggiungerò dopo un paio di “fermate” del bus alato ad elica della LADE. Data la vastità del paese, gli aerei svolgono un servizio molto simile ad una bus e quindi su un tragitto di poco più di 500 km capita di dover atterrare due volte “lungo la strada” prima di arrivare a destinazione.
Direzione Comodoro Rivadavia – Trasferimento aereo
Direzione Comodoro Rivadavia – Pozzi di petrolio
Comodoro Rivadavia, nasce e si sviluppa intorno al petrolio, di cui l’entroterra è ricco, come testimoniano i tanti puntini bianchi che costellano la terra marrone vista dall’alto, dall’aereo. Lascio in deposito all’aeroporto la bici, con parte del bagaglio, visto che dovrò tornarci l’indomani mattina per spiccare il volo verso il paese di Perito Moreno, situato nuovamente a ridosso della Cordigliera e non lontano dal lago Buenos Aires. Mi sposto dalla Cordigliera verso l’Atlantico e poi nuovamente verso la Cordigliera per portarmi più a sud, visto che devo fare i conti con un tempo a disposizione non illimitato e posso “saltare”, grazie al bus alato 800 km verso sud, in meno di una giornata. Trovo sistemazione in una pensione e la sera mi accomodo in un fantastico ristorante che ha adottato la formula USA “all you can eat” per un importo in Pesos (moneta locale) decisamente molto conveniente, soprattutto per un ciclista che trova nel nutrimento la “benzina” per far andare il “motore”.
Giorno 6: Comodoro Rivadavia – Gobernador Gregores (trasferimento aereo) Lago Cardiel (bici) STERRATO
Ho percorso tantissime volte con lo sguardo sulla cartina il tratto della Ruta 40 fra Perito Moreno e Tres Lagos; cinquecento chilometri di strada sterrata con un solo paese in mezzo: Bajo Caracoles. La guida inglese, che avevo acquistato alla libreria del viaggiatore prima di partire, nella sezione dedicata al tragitto fra Bajo Caracoles e Tres Lagos recitava “there is no food between Bajo Caracoles and Tres Lagos”. Ho sempre pensato, prima di esserci, che come inizio di viaggio in Patagonia, sarebbe stato decisamente spettacolare, da solo, in mezzo alla deserta steppa patagonica, battuta dal vento a cento chilometri all’ora, in solitaria battaglia con gli elementi di terra e di aria. Quando però, la mattina del 22 dicembre mi sono trovato a bordo dell’aereo che da Comodoro Rivadavia andava a Gobernador Gregores con tappa a Perito Moreno, non me la sono sentita di scendere e di affrontare quei cinquecento chilometri “no food”.
L’aereo, un bimotore ad elica da circa quaranta posti, lo stesso del giorno prima, atterra su una striscia di “ripio” aeroportuale. Si apre il portellone posteriore, fuori una fila di pali dell’elettricità che si perdono all’orizzonte, cielo coperto, vento, e, poco distante dall’aeromobile, un capanno, che definire stazione aeroportuale ci vuole coraggio. Il capanno è una amena casa bianca coperta da un colorato tetto verde, di dimensioni poco superiori ad una villetta bifamiliare di una qualsiasi periferia poco affollata di una qualunque città europea. In prossimità della stessa, un paio di scalette ed un serbatoio di combustibile, che determinano inequivocabilmente la destinazione aeroportuale del capanno. Siamo a Perito Moreno, o meglio nell’aerostazione di Perito Moreno. Siamo sul bordo del portellone posteriore dell’aereo, io ed alcuni viaggiatori incuriositi da cotanta diversità, i nostri abiti sono sferzati dal vento, che manifesta la sua forza repulsiva sulla carlinga dell’aereo con melodie di scricchioli alle giunture. Il mio sguardo si sofferma a guardare fuori quei pali che scompaiono all’orizzonte. In testa pensieri a basso profilo, non particolarmente esaltanti, al fondo una riflessione “chi me l’ha fatta fare?” Non c’è nulla, intorno, all’aeroporto ed all’aereo, meglio non c’è nulla di quello a cui noi “esseri cittadini” siamo abituati: cementificazione, plastificazione, innatura, e gente, tanta gente, ovunque. Qui in realtà c’è tutto! Ma non lo riesco a vedere … lo vedrò dopo.
Quando sorvoli la Patagonia vedi sotto di te una costanza di tonalità sul grigio marrone che ti segnala che lì sotto c’è il nulla: non c’è traccia di essere umano, se non quando scorgi lunghe, dritte e più chiare strisce che denotano la presenza di una strada, un “ripio”, e non c’è traccia di vegetazione, che sia più alta di qualche decina di centimetri. La Patagonia è una terra che offre ospitalità al massimo alle pecore, nei pochi punti dove fa arrivare dell’acqua consente all’uomo un timida colonizzazione. La Patagonia non ti vuole, non ti accetta ed il vento e il territorio sono la conferma di questa ferma volontà repulsiva. L’uomo in Patagonia non è contemplato, tantomeno un ciclista!
Era dal giorno prima che stava montando dentro di me una strana sensazione che a pensarci bene era paura. Quando ti si blocca qualcosa al livello della bocca dello stomaco, quando il cuore accelera, quando hai il fiato corto, non ti senti tranquillo, non capisci, sei confuso e quando la testa ragiona poco e male, allora sei stato assalito da un sano sentimento di paura. Una paura che non è improvvisa, ma che cresce dentro, lentamente, ma costantemente, che ti fa guardare dall’oblò dell’aereo con occhi spalancati e ti fa scorrere in testa le tante difficoltà che inevitabilmente dovranno essere affrontate, dipingendotele come drammaticamente insuperabili.
“Non scendo!” Avevo deciso la notte prima di rinunciare al tratto fra Perito Moreno e Bajo Caracoles, un po’ per paura, un po’ perché ricalcolando meglio le distanze ed i giorni disponibili dovevo inevitabilmente ridimensionare le mie ambiziose e, forse un po’ eccessive, aspettative e mete.
Ripartiamo! Le ruote del nostro bus alato, lanciato in velocità per decollare, schizzano sassi e terra a guisa di motoscafo del “ripio”.
Gobernador Gregores, la prossima tappa, è a “pochi chilometri aeronautici” di distanza. Sotto di me scorgo la Ruta 40, la mitica strada che congiunge il nord al sud dell’America Latina.
Perito Moreno – Aeroporto, “non scendo!”
Quando ci posiamo sulla striscia di ripio aeroportuale di Gobernador Gregores, ad accoglierci una scena già vista, un casale con sembianze da aerostazione, un paio di serbatoi di combustibile, e la solita coppia di scalette. Il nostro arrivo rappresenta lo sbarco dell’umanità, della vita al di là dei cespugli sferzati dal vento, che soffia senza tregua. Abbandono la mia comoda poltroncina, percorro in preda ad un forte stato d’ansia il corridoio del veicolo alato, oltrepasso la piccola porticina che separa la zona passeggeri dalla coda e, rallentato dalla fila dei passeggeri che scendono insieme a me, oltrepasso, abbassando la testa, il portellone di uscita. L’emozione, mista a paura, è grande. “Adesso non posso più pensare a scorciatoie. O rinuncio al viaggio in bici, oppure esco, affronto la Patagonia”. E’ un po’ come quando si impara a nuotare, quando alla fine terminato il periodo di salvagenti, braccioli e accompagnamenti, si viene spinti un po’ bruscamente in acqua accompagnati dalla perentoria esortazione di chi ci ha sospinto, che suona più o meno così: “adesso nuota!” Beh, è così! Abbassando la testa sotto la bassa volta del portellone, vivo dentro me l’attraversamento del confine tra la tecnologia, la sicurezza, la protezione, il mondo civile, il noto, con l’ignoto e l’incertezza, l’ostilità, la desolazione. Sono solo! Quei pochi metri di passeggiata per raggiungere il casale aeroportuale lasciano il tempo allo sguardo, all’udito, al corpo, di percepire e confermare le difficoltà che dovremo affrontare.
A terra, l’essere sceso insieme ad altri passeggeri, unitamente all’animarsi tipico di una stazione di viaggio che accolga un arrivo, la piccola ressa formatasi per la distribuzione del bagaglio a voce e a mano, sono elementi che mi aiutano a distogliere il pensiero, e che mi infondono una stilla di tranquillità. “Non sono solo!” Poi però i bagagli, la ressa, i parenti, gli amici, gli altri passeggeri spariscono e resto solo, insieme ai due impiegati dell’aeroporto ed ai due militari in forza al casale aeroportuale. La sensazione è di quelle da deserto dei tartari, con la variante che io non ci resterò per molto nel fortino-casale, avamposto di vedetta sul deserto patagonico, ma mi sospingerò fuori inoltrandomi al suo interno. Per un attimo apro la porta che dà sull’unica strada (sterrata!) che si allontana dall’aeroporto, una lunga bretella di raccordo con il paese Gobernador Gregores posto ad una decina di chilometri di distanza dall’aeroporto; fuori c’è vento robusto, il cielo è coperto da nuvoloni che viaggiano veloci, del sole nessuna traccia, la visione è di quelle che non ispirano affermazioni del tipo “dai, andiamo a fare una scampagnata in bici nei dintorni”. La sacca azzurra contenente la bici, sapientemente imballata ad Exquel per trasferire bici e bagagli, è appoggiata ad una fila di seggiole della “sala d’aspetto”. L’area di attesa, check-in, arrivi, partenze, bar, ufficio informazioni è tutta concentrata in un unico spazio, poco più grande di un paio di ampi garage. Apro la sacca, estraggo la bici e comincio a rimontarla senza particolare fretta. Sotto le incuriosite occhiate del ridotto personale del campo di volo procedo nella mia opera. La bici è pronta. Mi infilo dentro la toilette per indossare l’abbigliamento tecnico di tipo invernale, poiché fuori, oltre ad esserci tanto vento, la temperatura si è decisamente abbassata, rispetto alle latitudini settentrionali.
Finito! Sono pronto! Devo solo aprire la porta ed andare.
Tergiverso qualche istante con un militare per farmi dare alcune indicazioni sulle condizioni del ripio, dove si trova la prima estancia (fattoria) utile e così via.
Sono fuori!
Decido di esorcizzare paure e timori montando subito in sella, iniziando così il viaggio, quello vero. Le prime pedalate sono un tentativo di armonizzazione fra me e l’ambiente circostante. Prendo il ritmo dello spirare del vento, adeguo il mio procedere alla irregolarità del fondo stradale, ristabilisco la pace interiore, annullo timori e paure e comincio a far lavorare la testa.
Dopo circa nove chilometri ecco il paese di Gobernador Gregores, da queste parti chiamata ciudad; città di mille abitanti, battuta dal vento patagonico ogni giorno che Dio manda in terra dell’estate subtropicale, collocata a trecentosettanta metri sul livello del mare. Sono i primi nove chilometri di Patagonia vera, quella che mi aveva fatto stare in ansia fino a pochi istanti prima e che adesso mi accoglieva fra le sue braccia ammantandomi di turbinii d’aria. Sto cominciando ad assaporare il significato del viaggiare solitario, lontano da tutti e da tutto, sorpreso nel ritrovarmi tranquillo. Sì, c’è il vento, c’è il ripio, il cielo è coperto, ma è forse la prima volta che mi sono trovato ad affrontare una strada sterrata con un po’ di vento ed un cielo coperto?
Arrivato in città chiedo a più d’un passante informazioni sulla giusta strada, vista la scarsissima presenza di segnali stradali che riportino indicazioni certe ed affidabili; trovo il supermercato dove fare il pieno di “benzina” (acqua e cibo).
La poca umanità che trovo in giro è l’emblema di una vita “sottovento”. Quando, per buona parte dell’anno, il vento si infila in mezzo alle case, sollevando polvere e sterpaglie nelle strade, non può esserci l’abitudine a vivere “fuori”.
Il supermercato è una sorta di drogheria, la scelta fra le derrate da acquistare non è ampia; fisso il banco dei salumi, poi quello della frutta, poi quello delle conserve, stimando i consumi ipotetici di una giornata intera in bici, valutando i pesi dei singoli prodotti, i bisogni energetici, il fabbisogno di zuccheri, ma soprattutto calcolando quanti litri d’acqua mi serviranno per almeno 10 ore di viaggio. Alla fine esco con una decina di chili di generi alimentari, più della metà del peso è rappresentato da liquidi, “mi serviranno”.
Sono le 14.00, dopo l’ultima conferma sulla direzione da prendere, inizio la mia avventura diretto a sud-ovest verso la Ruta 40, la mitica. Penso, “sono solo 60 km, in sette ore, ad essere pessimisti, dovrei esserci; una volta presa la Ruta 40, altri 15 km e arriverò all’estancia la Siberia”, insomma per le 10 di sera, il mio pensiero mi aveva proiettato alla meta. Mai previsione, nella mia vita di ciclista, si dimostrerà tanto improvvida!
Il sole fa capolino, nel cielo percorso da veloci nuvoloni, tutto si fa più luminoso, compreso il mio spirito, mi sorprendo a ridere, i timori hanno lasciato spazio alla felicità, sentimento che esonda e mi travalica, vivo un lungo ed intenso stato di eccitazione emotiva, pur pedalando, piango e rido allo stesso tempo, con nella testa turbinii di sentimenti ed emozioni, tutto connotato da poderosi ed inconsulti sussulti emotivi. Sono in una condizione di stravivenza, i miei occhi, non li vedo, ma so che trasmettono forza e determinazione, parlo da solo, mi autocelebro “sono qui, Fede, stiamo pedalando in Patagonia”.
Una prima salita, decisamente ripida, soprattutto con la bici che, da sola, pesa quasi 30 chili, con tutto il bagaglio e le riserve alimentari, mi riporta ad una dimensione più terrena, fatta di battito cardiaco accelerato e respirazione affannosa. In cima, mi si apre a perdita d’occhio la meseta su cui dovrò pedalare per i prossimi chilometri. Un incrocio, un cartello: “Lago Cardiel”.
Direzione lago Cardiel – Infinito?
Direzione lago Cardiel – Carcassa di guanaco
È lì che devo andare per raggiungere la Ruta 40. Il vento soffia inesorabile, robusto e contrario alla direzione che devo prendere. Scoprirò, nel corso del viaggio, che il vento in Patagonia è compagno di viaggio inseparabile, soprattutto d’estate, quando scende dalle Ande da ovest per dirigersi verso l’Atlantico ad est; in questo suo spirare costante è amico allorquando ti spinge alle spalle, diventa fastidiosa presenza quando spira di lato al senso di marcia, assolutamente molesto e nemico, quando lo scontro avviene frontalmente. Pedalare con il vento contrario, per dieci ore, ti spezza, le raffiche ti portano via il manubrio dalle mani, la ruota anteriore fatica a restare a contatto con il terreno, la velocità media di percorrenza è di quelle da crisi di sconforto: non si superano mai i 10 kmh, il rapporto del cambio che viene più utilizzato è quello da salita dura, nonostante si sia in piano. Il vento non ti molla, il suo perdurare ti porta ad un annientamento mentale, vivi “sbattuto”, ti fermi per mangiare un panino ed il vento ti preme su ogni parte, ti è costantemente intorno, ti lacera con le sue raffiche impazzite, te lo senti dentro la testa, ululante fra le pareti del cranio, ti prostra fisicamente, ma anche mentalmente; quando viaggi così lentamente, la curva all’orizzonte non arriva mai e fai fatica a restare calmo, a rimanere pazientemente concentrato alla ricerca di un equilibrio sempre comunque instabile. Quando ti metti in viaggio, con qualsiasi mezzo, lo fai perché vuoi arrivare in un punto diverso rispetto a quello da cui sei partito. In Patagonia, la tempesta atmosferica, sembra voler suggerire che non arriverai da nessuna parte. Non esiste un momento in cui puoi pensare di rilassarti, non c’è riparo! La mancanza di presenza umana poi, non ti aiuta a superare il calo mentale che con il passare delle ore aumenta inesorabilmente; allora cominci a pensare agli amici, alle ragazze, alla famiglia, cerchi di portarti mentalmente fuori da quella terra in tempesta. La natura dice che non ti vuole, non sei contemplato fra i bassi cespugli ed i sassi che ti circondano, ed in effetti a guardarsi bene, sono decisamente una nota di colore, di materia e di vita stonata, lì in mezzo; è come se, guardando un quadro impressionista sulla Patagonia (esisterà?), con nel bel mezzo un ciclista, ci si domandi: “ma quello lì che c’entra?”
Direzione lago Cardiel – Nessuna traccia di esseri umani
Sono le nove di sera, meglio di notte, sto pedalando da oltre sette ore, c’è ancora luce per la latitudine (49esimo parallelo), il cibo comprato a Gobernador Gregores è quasi finito, ma peggio ancora, degli oltre cinque litri d’acqua, non ne è rimasta più una goccia. Due forature alla ruota posteriore, a poca distanza l’una dall’altra, mi hanno costretto a sforzi supplementari dovuti allo smontaggio della ruota da un mezzo appesantito dal bagaglio e dalla spossante operazione di pompaggio per riportare il copertone alla giusta pressione; sono costretto a lunghe pause di recupero, accasciato sul fianco della strada. Adesso respiro affannosamente anche mentre sono fermo, in sette ore di viaggio ho visto passare una macchina, una sola, mentre mi ero fermato ad osservare poco distante dal bordo della strada la carcassa di una animale, presumibilmente un guanaco.
Non credo di essere nel mezzo di una situazione facile. Mi sono rimasti due limoni, che a distanza di mezz’ora vengono divorati interamente. Continuo a pedalare, cercando di risparmiare su tutto: battito cardiaco, respiro, sforzo fisico, risorse mentali e soprattutto cercando di convincermi che non ho sete. Mantengo lo sguardo verso il basso, guardando insistentemente il terreno che scorre sotto i miei copertoni, cercando di guardare il meno possibile l’orizzonte che non cambia mai; sto cercando mentalmente di crearmi un limbo di sopravvivenza e per un po’ il tutto sembra funzionare, forse il limone, forse la mia rinnovata spinta a resistere, stanno dandomi qualche stilla di nuova energia. L’incredibile accade: all’orizzonte si stagliano delle forme simili a cartelli stradali, dovrebbero essere i cartelli del famoso incrocio con la Ruta 40. Siiiì! La prospettiva mi eccita, non importa se ho finito l’acqua, non importa se sono sull’orlo dello sfinimento, ora vedo delle tracce lasciate da esseri umani. Sono laggiù a qualche chilometro, che percorrerò in un lasso di tempo interminabile, ma sono laggiù, ci sono, e non importa se un cartello metallico non potrà darmi da bere, non importa. Confido nella possibilità, una volta là, di poter girare rispetto al vento e quindi di poter decisamente migliorare la media di percorrenza su questa meseta infinita. Il cartello alla fine arriva e reca l’indicazione Lago Cardiel a sinistra. Sono in festa, una intima festa, con pochi fragori, date le poche forze che mi restano, ma sono felice. Per scongiurare le difficoltà del momento, decido di fare un paio di foto alla bici appoggiata ad uno dei due pali, che sorreggono i cartelli.
Direzione lago Cardiel – Luci e ombre del tramonto
Mai un cartello stradale mi aveva ingenerato tanta gioia e tanta ricarica mentale. Quando si pensa positivo, quando non si smette di sperare, alla fine qualcosa di positivo accade: riprendo, dopo appena mezz’ora di “tranquillo” pedalare, in mezzo a migliorate condizioni eoliche, incrocio un camion, il primo ed unico; non ci penso un attimo, mi fermo nel mezzo della strada ed alzo le braccia al cielo in segno di stop. Il mezzo si ferma di fronte a me, l’autista si sporge dal finestrino con aria inquisitoria, pronuncio poche ma significative parole “agua, por favor”. “Nella tanica di fianco, lasciala scorrere un po’ e poi prendine quanta ne vuoi”. “Che Dio ti benedica”, penso. Mentre riempio le borracce, dopo essermi assetato alla più provvidenziale fontana artificiale della mia vita, scorgo come sia il conducente del camion che un bambino, sono poco dietro di me e mi osservino incuriositi, non devo essere una facile risposta alle domande che intravedo nei loro sguardi. Ringrazio e riprendo nuovamente a pedalare, dissetato e rinfrancato dall’incontro provvidenziale; l’acqua mi ha ridato morale e ha bloccato la sete che da oltre un’ora soffrivo, ma tutto il resto è ormai in riserva. Pedalare con il fisico debilitato è ormai un’impresa, sono quasi le dieci, c’è ancora luce, la strada si è fatta più “suave”, in virtù anche di una piacevole discesa verso il lago, ma l’estancia indicatami dal militare non compare. È comunque incredibile, dopo tutta la fatica accumulata, sarà per la discesa, sarà per l’acqua, sarà per il vento non più contrario, che sento un ritorno di energie. Sarà un ritorno breve, ma sufficiente ad accompagnarmi verso il buio della notte.
Buio!
Ormai il buio mi avvolge, procedo con il faretto comprato dal mio amico Stefano di Cicli Magni, avrò percorso omai più di venticinque chilometri e non c’è segno visibile di luci artificiali nel buio della notte, un po’ di luna aiuta a scorgere i contorni della strada, il faro, con la poca luce che produce, mi costringe a rallentare il ritmo , ma non ce la faccio più, sto addirittura pensando di aver passato “l’estancia” senza averla vista. Non ce la faccio più! Fa freddo, sono sudato a strati, con gli indumenti impastati di polvere e terra, non posso umanamente chiedere di più al mio fisico; c’è un ponticello per la canalizzazione dell’acqua sotto la sede stradale, alto non più di mezzo metro; decido di eleggerlo a mia dimora notturna, porto la bicicletta oltre il lato della strada, l’appoggio al bordo del muretto del cunicolo e sfilo il sacco a pelo da una delle due sacche laterali; i movimenti del mio corpo si fanno sempre più contratti, la fame, la sete, il freddo, mi hanno prostrato a tal punto, che ogni sforzo è ormai diventato immane. Stendo la sacca porta bici a mo’ di giaciglio, sul fondo della galleria, indosso un berretto da ciclista degli anni ‘50, regalatomi da Andrea prima della partenza, faccio i miei bisogni, e mi metto a mangiare il poco che mi è rimasto. Mangio molto lentamente del pane, ma faccio fatica a masticare, sto tremando, bevo, cercando di razionare la poca acqua rimasta, pensando anche al domani, e infine mi infilo sotto il cunicolo nel sacco a pelo, per trascorrere la prima notte di vera Patagonia. Sono talmente esausto, che non riesco ad addormentarmi immediatamente, “fuori” il vento continua a soffiare, la temperatura è decisamente scesa e dentro al sacco a pelo, nonostante abbia mantenuto indosso il completo da bici, patisco il freddo, tremo. Sopra di me sento il passaggio di una macchina, sarà mezzanotte, è la seconda macchina che “incrocio” durante la lunga giornata appena trascorsa.[/lang_all][lang_all]
Giorno 7: Lago Cardiel (sosta)
Mi sveglio la mattina all’alba con una fastidiosa e preoccupante aritmia cardiaca accompagnata da affanno, Mi alzo e faccio tutto con estrema calma, per evitare aumenti ulteriori nella irregolarità della frequenza cardiaca. Riparto. Il vento è calato, ma pedalo lentissimamente; appena superata una breve salita, scorgo sul fianco della strada una casa, è l’estancia “La Siberia”, che il giorno prima non ero riuscito a raggiungere e che avevo addirittura pensato di aver oltrepassato.
Percorro le poche centinaia di metri del sentiero in salita per giungere alla meta, con tutta la calma necessaria, ma tale è la fatica e gli acciacchi fisici che non riesco a sorridere e a dare sfogo al mio immenso sentimento di felicità. Appoggio la bici ad una palizzata ed entro. Dentro, una serie di tavoli, un bancone, con dietro uno scaffale contenente generi alimentari, alcolici, sigarette e sul ripiano una caraffa d’acqua, due caraffe di succo d’arancia, una coppa contenente frutta e due vassoi di torte. Ho una sete incredibile, mi verso in un bicchiere diverse volte acqua dalla caraffa, quando arriva un distinto signore, con tanto di foulard al collo, baffo argentino, che mi chiede, “todo bien?”. Avrei tanta voglia di rispondergli con una secca verità “per niente”, ma mi accontento di un più formale “bastante”.
Lago Cardiel – Estancia La Siberia
Lago Cardiel – Ogni ben di Dio!!!
Chiedo se è possibile fare colazione ed ovviamente mi viene risposto di sì. Tè con leche, marmellata, burro, fetta di torta, spremuta, ordino tutto. “Il bagno dove è?”. “Dietro quella porta”. In bagno, nuovamente solo, ritrovo il mio battito accelerato ed un respiro sempre più affannoso. Mi guardo allo specchio, sono tirato e gli occhi sono sprofondati in un contorno di oscurità, mi lavo, cerco di ripulirmi un minimo. Rientrato nella sala, mi siedo al tavolo e divoro pane, burro, marmellata, miele, arance, banane, zucchero, tè, latte e di nuovo burro, marmellata, pane, tè, latte, arance, banane e miele. La fame si placa. Fuori comincia a piovere. È bello vedere cadere la pioggia sulla brulla terra della meseta patagonica, penso alla rinascita che ognuna di quelle gocce sta portando al suolo. L’acqua è vita!
“Dovresti ripartire adesso, lo so che piove, ma quantomeno con la pioggia non c’è vento e qui quando c’e’ vento le raffiche arrivano anche a superare i cento chilometri orari”. Il mio gentile ospite mi consiglia sul da farsi. “Sì, penso sia una buona idea, però preferisco aspettare ancora un po’”. Non me la sento di dirgli che sono stremato, che adesso quello che è il mio desiderio più grande, dopo aver mangiato, seduto su una sedia mentre fuori piove, è restare ad osservare le gocce che si appoggiano sul terreno e lo colorano.
Chiedo se c’è la possibilità di farsi la doccia e dopo poco mi ritrovo sotto un getto di acqua bollente che rimuove dal mio corpo ogni traccia di intirizzimento da freddo. L’acqua è da ustione, ma la sensazione di godimento che sto provando è enorme. Resto sotto la doccia talmente tanto tempo, che alla fine tutta la stanza del bagno è avvolta in una fitta nebbia. Dalla finestra, che da verso il locale dove ho fatto colazione, intravedo un piccola corriera ferma nel piazzale antistante, mi soffermo a guardare affascinato l’irreale ed inusuale presenza del mezzo meccanico, con a bordo esseri umani, tanti esseri umani.
Completamente ripulito e riscaldato, mi rivesto, e ritorno dal gestore dell’estancia a chiedergli un letto per potermi riposare qualche ora, prima della ripartenza; sono le undici e trenta, decido di dormire un paio d’ore e poi ripartire alla volta di Tres Lagos, paese distante una novantina di chilometri. Steso sul letto, ascolto il mio battito cardiaco, che ha diminuito la sua irregolare frequenza, ma che non si è ancora stabilizzato; non sono per niente fiducioso sul fatto che due ore di sonno potranno rimettermi in condizione di riprendere il viaggio.
La sveglia suona, sono le 14.00, sono completamente intorpidito, quello stato di intorpidimento che si prova quando si è troppo stanchi e si è dormito troppo poco; sento di essere ancora molto debole, passato il pericolo, le autodifese nervose si sono completamente abbassate ed ora anche la testa fa fatica a riordinare le idee, sono confuso. Ascolto il mio cuore, è nettamente migliorato, ma ancora non si è completamente regolarizzato. Resto così, ad occhi aperti, ascoltando il tetto in lamiera cigolare sotto i colpi del vento, “deve avere smesso di piovere”, del resto la pioggia da queste parti non è un fatto tanto frequente.
“Parto?” Mi pesa dover rinunciare ad un giorno di viaggio, ma alla fine decido di restare.
L’estancia “La Siberia” presumo si debba chiamare così in virtù del freddo siberiano che certamente deve avvolgerla in inverno, vista anche la temperatura non particolarmente mite che trovo riuscendo all’aperto, unitamente allo scenario brullo che la circonda. “Tutto qui intorno diventa bianco, ed anche il lago, che si vede fra le montagne, laggiù in fondo, ghiaccia”. Il mio ospite si intrattiene con me, mentre stende alcuni panni su un filo teso fra due pali, posti dietro il caseggiato.
L’estancia “La Siberia” è a ottanta chilometri da qualsiasi altro agglomerato urbano! Non c’è possibilità, per chi come me vive in Europa, d’immaginare di trovarsi in un posto che disti ottanta chilometri da un altro, senza alcuna traccia di esseri umani nel mezzo. Non c’è!
Lago Cardiel – Il vento, immancabile compagno di viaggio
Trascorro il pomeriggio alla ricerca del riequilibrio fisico. In francese esiste un parola che rende appieno la condizione: “paisible”. Passeggio, scatto fotografie, resto lunghi istanti ad osservare, ascoltare, pensare; respiro profondamente, ausculto il cuore, e nonostante, a chi mi osservi, io possa apparire come una persona dall’incedere molto, troppo rallentato, vivo un florilegio sensoriale, vivo intensamente i miei respiri, i fruscii intorno alle mie orecchie, i movimenti della mia giacca al vento, la luce del sole “correre” veloce sul terreno, “marcata” dalle nuvole in movimento. Lo Zen e l’arte di essere in Patagonia. Adesso provo piacere ad affondare il volto e le membra nei turbinii d’aria di questa atmosfera dal moto perenne.
Io amo il vento, come questo sole, questa luce, questo cielo dall’azzurro intensissimo. La semplicità diventa così naturalmente percettibile in questo angolo di Patagonia.
Si fa sera. Cena allo stesso tavolo della mattina. Carne, montagne di patate lesse e piselli, nuova linfa per le mie membra. Il mio ospite ha acceso il gruppo elettrogeno, ed oltre alla luce delle lampadine arrivano anche le immagini ed i suoni da una televisione posta in cima ad uno scaffale. Quelle immagini arrivano dalla metropoli, da Buenos Aires. Le immagini televisive, i dibattiti fra persone in giacca e cravatta, gli argomenti trattati, proiettano sul mondo patagonico, sugli avventori della estancia “La Siberia”, un qualcosa di assolutamente surreale. Guardando oltre le vetrate, nella penombra del lungo tramonto, il contrasto diventa stridente, fuori c’è la natura, lo spazio, il tempo, la vita, dentro quella scatola nulla di tutto ciò è presente, eppure mi sorprendo, insieme agli altri due commensali, il mio ospite e l’anziano custode, a restare ipnotizzato a guardare naso all’insù, a dipendere da quel surreale che travalica i confini dei pollici, che lo delimitano e che ci sta invadendo le menti, la nostra vita, il nostro modo di relazionarci con la realtà.
Accompagno l’abbondante pasto – faccio più volte il bis – con un bel boccale di birra. Sono le undici passate. Fuori è da poco calato il buio; aspetto ancora un po’ seduto al tavolo, con la testa ed i suoi pensieri, che non si sono fermati un istante dall’inizio della giornata. Sono in una condizione di stravivenza!
Mi congedo dai miei ospiti, tutti intenti a seguire il “surreale inscatolato”, e mi incammino verso la capanna, dove mi aspetta un comodissimo letto dalle mille coperte. Mi infilo sotto le coltri, mi raggomitolo e il calore del mio corpo rende l’ambiente gradevolissimo, un sogno; sopra di me quattro strati di pesanti coperte e piumini, ma il peso non mi pesa, tutt’altro. Prima di sprofondare nel sonno, ascolto i rami degli alberi raschiare il tetto, mossi dal vento, sempre lui, incessante.
Giorno 8: Lago Cardiel – Tres Lagos (bici) STERRATO
Sono da poco passate le sei di mattina e la mia sveglia mi segnala che è ora di alzarsi. Durante la colazione bevo ogni sorta di liquido, mi rimpinzo come un cammello; rabbocco le borracce fino all’orlo, aggiungendo qualche cucchiaino di zucchero in ognuna di esse, e riempio anche la bottiglia di scorta, per complessivi quattro litri. La colazione finisce in gloria, con un conto un po’ salato, ma non è il caso di fare una inutile pesa. Il mio ospite mi ha preparato due panini giganti per la “comida” durante il viaggio.Saluto, ringraziando sentitamente.
Nuovamente fuori, in tenuta da viaggio; la bici, con le sue sacche ben riposte e le scorte alimentari è pronta a ripartire insieme a me e percorrere il “ripio” abbandonato per un giorno. Il vento ed il cielo coperto ripropongono uno scenario già visto. Rimonto in sella, percorro il breve tratto in discesa che mi riporta sulla strada principale, con tutti i sensi in stato di allerta, cerco di capire se tutto è tornato in ordine. Svolto a destra, direzione Tres Lagos, mia prossima tappa; la strada riprende a salire, pedalo con molta calma, cercando di capire se il mio corpo è tornato ad essere un tutto armonico. Superato il dosso, sparisce per sempre l’estancia “La Siberia”, sento naturalmente di dover ripetere la parola “grazie”. Preoccupazioni e timori svaniscono rapidamente; dopo i primi colpi di pedale, sento di star bene, sia fisicamente che mentalmente. Sono tornato ad essere felice in sella alla mia compagna di avventura. Il paesaggio è tornato ad essere quello tipico: “meseta” sconfinata, ciuffi d’erba e bassi cespugli piegati dal vento, orizzonti lontani e nel cielo nuvole che viaggiano veloci, accoppiandosi e separandosi senza sosta. Sono di nuovo sulla Ruta 40. Siii. Potrà sembrare strano, ma essere completamente solo nel mezzo della Patagonia è qualcosa che mi rende a tal punto felice, che non riesco a pensare di volere di più. Ho tutto quello che voglio. Gli occhi per vedere la luce, il naso per respirare l’aria, la bocca per bere e mangiare il tanto che ho con me, le orecchie per ascoltare le mille melodie che mi accompagnano.
Direzione Tres Lagos – Solo 85 Km ed è il 24 dicembre
Direzione Tres Lagos – Qualche metro di cemento …
Cinque ore sui pedali mi portano ad incrociare i primi guanachi, animali timidi e schivi, che però si riescono ad ammirare, anche a distanza, per la loro taglia, simile a quella di un cavallo. È una giornata di intenso traffico, incrocio ben quattro mezzi lungo il mio percorso. La strada è un susseguirsi di linee dritte che si perdono all’orizzonte, l’andamento non è mai in piano. Lunghe, ma soavi, sono le salite da percorrere.
Finalmente incrocio “l’estancia” indicatami dal mio salvatore. Le “estancie” patagoniche si caratterizzano, oltre che per il loro essere forme geometriche, che introducono una netta interruzione sulla linea d’orizzonte, anche per la presenza di elementi assolutamente rari nella desolata “meseta”: gli alberi. Questa “estancia” è sorta in corrispondenza di un rivolo d’acqua che ne alimenta la vita; animali, uomini, donne e bambini vivono tutti “aggrappati” a lei. “C’è qualcuno?” Nessuno risponde. Mi inoltro all’interno, quando d’improvviso mi si para dinanzi una arzilla signora di una certa età, che mi saluta con fare brusco. Domando se è possibile avere un po’ d’acqua e dello zucchero e con aria un po’ seccata e con un certa diffidenza, della serie “ecco il solito squattrinato che non mi lascerà un peso”, mi riempie di acqua la bottiglia da due litri. Notata la sua aria di sufficienza ed avendone intuito il motivo, cerco di rimediare, chiedendo se è possibile, a pagamento, fare un “desayuno”. “Certamente” la mia interlocutrice si ravviva. “Costa cinque pesos e comprende caffè, latte, pane, burro, marmellata, …”. Non mi sta correndo appresso nessuno, se non la necessità di essere a Tres Lagos, distante ancora cinquanta chilometri, per le sei e mezza di sera, al fine di prendere il colectivo o espresso patagonico, che mi porterà a El Calafate per le nove e mezza. È il 24 dicembre, vigilia, ma onestamente non me rendo granché conto.
Il mio desayuno è cominciato e procede a suon di calorie e scambi dialettici sul prezzo della lana, sul caro vita, sul governo che aiuta poco le famiglie in Patagonia, sul costo della benzina. La mia ospite è diventata un fiume in piena di lamenti ed io mi diverto a darle corda, per il solo gusto di sentirla parlare. Pago, saluto, ringrazio e mi rimetto in cammino.
Il vento è cresciuto di intensità, è sua abitudine farlo nelle ore calde della giornata. È tornato ad essere contrario alla mia direzione di marcia, è ricominciata la lotta, ma sono sereno, ho imparato a non avere fretta di raggiungere il “laggiù”, vivo la mia ridotta velocità non come frustrazione, ma come condizione di cui farsene una ragione. All’orizzonte una nuvola di polvere che si avvicina. È una macchina, che una volta giunta alla mia altezza, rallenta e si ferma. Mi fermo anche io, ci mancherebbe, non sono tante le occasioni di incontro fra esseri umani lungo queste strade. Il conducente scende dal suo mezzo, incuriosito, ma allo stesso tempo preoccupato per me, “todo bien?” Rispondo di si e chiedo un po’ d’acqua. Ho fatto esperienza, e ormai so quanto sia importante avere scorte liquide da bere, e anche se può sembrare poco carino fare richieste così dirette, non mi vergogno a domandare. “Acqua no, ma abbiamo della Coca Cola”. Mi passa una bottiglia maxi da due litri, invitandomi a riempire la borraccia a volontà. Non me lo faccio ripetere due volte; nell’intensità del momento mi sono dimenticato per un attimo del vento, che soffia deciso, e mentre rimuovo il tappo della bottiglia, evidentemente shakerata lungo il tragitto, mi trovo, non volendo, protagonista di una sorta di festa da podio, tipica di un finale di gran premio automobilistico, con schizzi di Coca che si spandono nell’aria. Dalla vettura, un pick-up, sono scesi due bambini. Il vento li porta istintivamente a tentare di coprirsi per proteggersi dal suo imperversare. Li guardo sorridendo. Mi guardano stupiti. Leggo nei loro pensieri, stanno pensando di avere di fronte a loro uno svitato. Beata gioventù.
Ringrazio, e, ognuno per la sua direzione, riprendiamo i nostri tragitti. Il vento è perfettamente contrario, mi sento un novello Sisifo, che sospinge una pesante catasta. Sono tornato a pedalare con rapporti molto ridotti, da salita, ma almeno non subisco gli sbandamenti laterali dovuti alle raffiche. Siamo muso contro muso, io e il vento. Davanti a me un lungo rettilineo, la cui fine si perde all’orizzonte, ma ho imparato la lezione: qualsiasi cosa lontana può essere raggiunta, è solo una questione di tempo e di pazienza. È necessario annullare l’effetto miraggio, quello che allorquando si intravede una meta ci si fa trascinare dalla frenesia di volerla raggiungere al più presto. La mia ansia di percorrenza veloce della Patagonia si sta placando, sto entrando in una dimensione più confacente al luogo.
Prima di ogni partenza cerco sempre di programmare le tappe del mio viaggio, nella convinzione di dovere e poter essere dove ho pianificato di arrivare. In Patagonia il determinismo deve fare i conti con il vento, le stato delle strade, le condizioni meteo, il cibo, l’acqua, ecc.
Al termine dell’ennesima lieve salita, comincia un dolce declivio, ed una lunga curva verso sinistra mi porta deciso verso sud. Nel percorrere il lungo raggio di curva, il vento da contrario diventa a favore, portandosi alle mie spalle, e nello spazio di meno di un paio di chilometri, la mia velocità passa da circa cinque chilometri orari a quasi quaranta. È cominciata una lunga discesa di venti chilometri, che terminerà a Tres Lagos, la meta di arrivo. La velocità è tale che non riesco nemmeno a pedalare. Sto filando come il vento!
È la prima volta che mi capita, ma che bella questa velocità, non ho neanche più il tempo di guardarmi attorno o pensare, adesso mi devo concentrare sulla velocità, e sul fatto che una bici pesante, che percorre a quaranta chilometri orari una strada sterrata dal fondo irregolare, si può trasformare in qualcosa di incontrollabile e terminare la sua corsa con una rovinosa caduta. Dopo un ennesimo leggero scollinamento la meseta offre una visuale aperta su un fondo valle lontano, ma che svela una macchia di colore diversa. “Sembrano delle case, ma mancheranno almeno dieci chilometri”. Non ho molto tempo da dedicare all’osservazione del panorama, perché la mia velocità continua a permanere decisamente elevata ed il mio sguardo deve necessariamente tornare a guardare da vicino il “ripio”; adesso l’azione combinata del vento, discesa e fondo stradale hanno ulteriormente aumentato la mia velocità, tanto da farmi sfiorare medie da motorizzato. Sposto il mio baricentro il più possibile all’indietro, ponendomi con buona parte del corpo dietro l’asse della sella, nel tentativo di alleggerire il più possibile l’anteriore, nel caso dovessi trovare sotto le ruote asperità o buche. La bici a queste velocità galleggia, e l’adrenalina scorre a fiumi. Sono teso come una corda di violino, processo migliaia di informazioni visive al secondo: wowww! La macchia all’orizzonte si trasforma in gruppo di case, oramai ne sono certo, si tratta di Tres Lagos. I dieci chilometri vengono percorsi in poco meno di un quarto d’ora, alla fine della discesa un breve tratto in piano, al termine del quale sbuco su un incrocio a T, a sinistra il paese, a destra, a poco più di cinquecento metri, un distributore di benzina, il primo che incontro da Gobernador Gregores. Decido di dirigermi verso la stazione di servizio per chiedere informazioni e avere conferme. Sono le tre e mezza del pomeriggio, il colectivo patagonico è previsto che passi verso le sei e mezza, cioè fra tre ore. All’interno della stazione chiedo all’unico inserviente conferma delle informazioni sull’orario di passaggio della corriera. Non c’è certezza assoluta sugli orari di arrivo, “sa, dipende se non hanno inconvenienti lungo la strada”, ma il suo passaggio, all’incirca a quella ora, è confermato. Ho tre ore da spendere e nonostante la voglia di fermarsi a riposare sia grande, decido di andare a fare un salto “giù” in paese, distante un paio di chilometri. Chiedo di poter lasciare i bagagli sotto una lamiera appoggiata fuori la stazione di servizio. Con la bicicletta scarica mi avvio verso il paese.
Tres Lagos
Tres Lagos è un “pueblecito” di circa duecento anime, posto nel mezzo del nulla patagonico. Sono da poco passate le quattro del pomeriggio e la gente si sta risvegliando dalla siesta pomeridiana. Tre bambini sono per strada a giocare; passo di fronte al “supermarket” ancora chiuso. Il paese è una sorta di grande estancia, composto da un viale con in mezzo uno spartitraffico, dove qualcuno ha cercato coraggiosamente di piantare degli alberi, tentativo andato a vuoto per la persistenza del vento. Sui lati del viale, le case ad un piano ed una chiesa, piccolina, ma decisamente graziosa con il suo tetto appuntito. È il 24 dicembre. “Peccato non essere qui stanotte, sarebbe bello assistere alla messa di mezzanotte, qui, a Tres Lagos”.
Mentre bighellono lungo il viale, ecco comparire Karl; non è solo, ha con se un qualcosa che me lo rende subito simpatico, la sua compagna: una bicicletta.
Tres Lagos – Karl
È subito amicizia. Il solo fatto di esserci arrivati con lo stesso mezzo, in questo pueblecito di duecento anime, ci “obbliga” a fraternizzare. Dando libero sfogo alla nostra cordialità repressa di ciclisti solitari, ci lanciamo in una fitta conversazione basata su provenienze, direzioni, attrezzature, comparazioni attente del mezzo di viaggio. Sfidando il vento, ci sediamo per terra, a ridosso del muro del supermarket, per consultare la cartina della Patagonia. Manca solo il tè per poter conferire una solennità salottiera al nostro momento. La mia cartina l’ho dimenticata nella tasca interna della giacca, a stretto contatto con il mio torace, che nel corso della giornata deve avere espulso qualche litro di sudore. Risultato, la cartina è diventata una paccottiglia umida, che nel tentativo di aprirla e distenderla sul piano del marciapiede, si frammenta in tanti piccoli pezzi. Karl viene da sud, da Ushuaia, lì dove devo arrivare. Gli chiedo informazioni sulle condizioni della strada. “Da qui fino a El Calafate la strada è buona fino al lago Viedma, poi comincia un lungo tratto con buche piene di sabbia, dove fai fatica a pedalare”, domando anche della Tierra del Fuego, l’ultima tappa del mio viaggio verso il “sud del sud” del mondo. “In Tierra del Fuego la strada di ripio è buona, e poi, soprattutto nel primo tratto, fra Porvenir e San Sebastian, il vento alle spalle ti consente medie, in pianura, superiori ai trenta kmh”. L’affermazione “ho impiegato da Porvenir a San Sebastian cinque ore e mezza” mi lascia piuttosto dubbioso, considerando che fra i due villaggi la distanza è superiore ai centocinquanta chilometri. Karl, con la sua esperienza di viaggio, risulta essere un serbatoio di informazioni importantissime per me. Con perfetto spirito avventuriero, Karl viaggia sulla base di indicazioni ricevute dagli indigeni, che trasferisce su fogli di carta, dove disegna il suo percorso di viaggio, che peraltro ricalca, con buona approssimazione, le strade segnate sulla carta geografica appena regalatagli.
“Sono al camping municipale, all’inizio del paese, se vuoi puoi venire a dormire lì per stanotte, non c’è nessuno, oltre me, e costa solo un peso”, Karl mi da indicazioni per la notte.
“Mi dispiace, ma prendo il collettivo fra un’ora per andare a El Calafate, ma passo a trovarti fra poco”.
Tres Lagos – Bambini
Dopo esserci salutati, resto in attesa di fronte al supermarket ancora chiuso. L’attesa non si protrae per molto, all’ora di apertura, una piccola folla di cinque persone accede all’interno dell’esercizio commerciale. Cerco di telefonare a casa, in Italia, ma c’è un problema: non prende la linea. Chiedo lumi al proprietario, che mi risponde che il telefono è abilitato solo per telefonate in Argentina.
Ripiego sulla segreteria telefonica di Consuelo a Buenos Aires, lasciando registrato un laconico “sto bene e tanti auguri”. Prima di ritornare sui miei passi mi rifocillo con un paio di banane e mi concedo il lusso di una lattina di Cola. Passo a salutare Karl al campeggio municipale, alle porte del paese. Il camping municipale è poco più di un terreno recintato da palizzate fatiscenti, alcuni pali per l’illuminazione, un pulman come probabile sede degli uffici della direzione, alcune piante ad alto fusto, ed un fabbricato in muratura, sede dei bagni. L’unica tenda presente, quella di Karl, è posizionata nel mezzo di una delle due piazzole. Mi inginocchio di fronte all’ingresso della tenda e do una voce a Karl, che immediatamente mi apre la porta della sua abitazione, una canadese per due, invitandomi ad entrare. Karl non è esattamente l’immagine dell’uomo esile e minuto, ed io con i miei quasi due metri non sono da meno; abbiamo riempito quasi completamente lo spazio interno. Chinati l’uno verso l’altro, obbligati a ciò dalle volte del “tetto”, consumiamo insieme tè caldo e biscotti, acquistati poco prima dal panificatore del paese. Fuori il vento preme sulle superfici esterne della tenda; vuole entrare anche lui, ma Karl mi rassicura sulla comprovata tenuta del suo guscio. Gli credo. Spendiamo minuti insieme molto gradevoli, tutto ci viene naturale, parlare o restare in silenzio è indifferente; noi così distanti nel nostro ambiente di provenienza, adesso, invece, così vicini e complici in Patagonia. È ora. Mi congedo da Karl, anche se la cosa mi dispiace alquanto. “Good luck!”. Nei miei pensieri c’è il rammarico di dovermi separare da una persona, che come me ha intrapreso un viaggio fuori dai canoni.
Sono le cinque e mezza del pomeriggio, eccomi nuovamente alla stazione di servizio, in attesa del “colectivo patagonico”, il cui arrivo è previsto intorno alle sei. Il mondo è piccolo! Rincontro l’addetto alla consegna bagagli all’aeroporto di Gobernador Gregores. Sono passati solo tre giorni, ma a me sembra un secolo. Quando si stravive, il tempo, il nostro tempo, arriva a contenere molti più eventi, diventa più capiente, rispetto a quando semplicemente viviamo. Mi viene naturale di pensare “è accaduto tanto tempo fa”. Sta andando con tutta la famiglia a trovare i parenti a El Calafate, in macchina ovviamente. Oggi è giorno di festa per tutti, dai benzinai agli addetti aeroportuali.
Sono passate ormai due ore e dalla sedia su cui sono seduto continuo piuttosto preoccupato a fissare all’orizzonte la striscia di “ripio” da cui dovrebbe sopraggiungere il mio “colectivo”, ma nonostante le scie di polvere, chiaro segno di un passaggio di un veicolo, si siano susseguite con una elevatissima frequenza, per lo standard patagonico, quella del mio mezzo non ha fatto ancora capolino, anzi gli sbuffi di polvere si sono andati ormai rarefacendo. Sono le sette di sera, e più di un dubbio nasce spontaneo. Anche il gestore comincia a dubitare sulla possibilità reale di vedere comparire il “colectivo”. “Strano, di solito è qui verso le sei, ma mi sa tanto che oggi non passa”. Il “colectivo” non arriva e non arriverà. Alle otto e mezza di sera il gestore mi invita ad uscire perché anche lui va a festeggiare il natale a casa. Non mi resta che tornare a Tres Lagos. È il 24 dicembre, la vigilia. Per compensare la dispendiosa notte passata a l’estancia la Siberia, il camping municipale è il luogo ideale dove passare questa vigilia di natale. Un “peso”, l’equivalente di un dollaro statunitense, per passare la notte, condividendo con Karl un’area campeggio per almeno un centinaio di persone, appare essere un’ottima soluzione. Chiedo a Karl se posso sistemarmi a dormire nei bagni maschili, non sia mai che nella notte qualche esemplare femmina di guanaco avesse bisogno dei servizi per signore, e Karl ovviamente mi da il suo benestare, anzi mi accompagna ad ispezionare il locale e insieme decidiamo la migliore collocazione del sacco a pelo per la notte. Una doccia calda e tonificante mi regala momenti di intensa resurrezione. Dal mio scarso guardaroba estraggo i migliori capi e sono pronto per la festa. Busso alla tenda di Karl e ci avviamo verso il “centro” alla ricerca di un ristorante ed anche per prendere informazioni per la messa di mezzanotte. Karl non è cattolico, ma conviene sul fatto che in una Tres Lagos così distante da tutto, la messa assume un significato ed un valore che può andare al di là del credo religioso. Attraversiamo strade deserte, ma con le luci delle case tutte ben accese. Si intravedono i nuclei familiari intenti a dar corso alla festività, alberi di natale, segni della cristianità. Godo anche io di questa aria di festa. Il vento ci sta concedendo un tregua, si è trasformato quasi in una brezza. Chiedo ad un locale per la messa di mezzanotte.
“Purtroppo, essendo solo duecento anime, “no hay padre” e quindi non c’è messa a mezzanotte”.
Tres Lagos – “no hay padre” niente messa di natale
Nella cattolicissima argentina, in un cattolicissimo pueblo patagonico, “no hay padre” non me lo sarei mai aspettato. Pazienza, sarà, anzi, è vigilia lo stesso. Troviamo il ristorante. Si tratta di un locale con un bancone su un lato adibito ad angolo bar, dove una decina di locali abbigliati a festa, stanno conversando amabilmente e sorseggiando vino rosso. La sala è decisamente ampia; su un altro lato è posta una tavolata imbandita, un paio di divani addossati alle pareti e un alberello di natale illuminato da festoni di lampadine, posto sopra un tavolo, con sotto i regali, completano il quadro di un ambiente piuttosto spartano, ma accogliente, non fosse altro per la presenza di tanta folla. “Si può mangiare?” chiedo alla proprietaria che ci è venuta incontro, e che ci risponde con un perentorio e brusco “Si”. La secca risposta ci fa capire che a Tres Lagos il 24 dicembre non stavano aspettando ospiti. Il menù ci consente di scegliere fra cotoletta, insalata, pane e ben due birre a testa. Mangiamo di gusto, osservando la sala popolarsi ulteriormente di nuovi ospiti. La nostra proprietaria ci fa una certa fretta, ma è vigilia anche per noi ed io e Karl ci lasciamo andare a discorsi “da lacrima”.
“Ecco, vedi, questa è la mia ragazza”, mi mostra alcune fotografie di un loro viaggio in Europa in bici. Karl è un ex campione di judo ed il suo fisico possente testimonia e certifica quanto mi sta dicendo, e la sua ragazza non gli è da meno in quanto a vigore fisico, del resto, per seguire il proprio uomo in bicicletta in Europa, non sarei riuscito ad immaginare una donna mingherlina al suo fianco. La padrona ci sta gentilmente cacciando, chiedendoci di saldare il conto. Innalziamo il calice di birra e nel brindare ci auguriamo buon natale
“Happy Christmas Karl!”
“Happy Christmas Federico”.
Paghiamo e salutiamo, augurando a tutti i presenti buon natale. Al momento del nostro commiato, finalmente vediamo riapparire il sorriso sul volto della nostra padrona, che deve essersi resa conto anche lei che siamo soli anche se per nulla tristi, in questo natale a Tres Lagos. “Buon natale”. Una volta usciti, scopriamo la centrale elettrica, posta perfettamente al centro del paese, e adesso che è calato il vento, fino quasi a sparire, ci avvediamo del frastuono che produce; alimenta tutto il paese con il petrolio che gli argentini estraggono dai pozzi sulla costa, quelli che avevo sorvolato nei pressi di Comodoro Rivadavia.
La vigilia volge al disio, abbiamo peregrinato seguendo un percorso a zigzag fra i vari blocchi, disposti secondo geometrie regolari. Rieccoci di nuovo al nostro camping municipale.
“Buonanotte”.
Ci congediamo dirigendoci ognuno verso il proprio “appartamento”. La temperatura in bagno è decisamente bassa, ma l’ultima notte passata all’addiaccio mi ha insegnato un trucco: coprirsi! Papalina, calzettoni, maglione e il gioco è fatto, con il tocco finale della sacca porta bici sotto il sacco a pelo. L’orologio indica la mezzanotte meno qualcosa. Punto la sveglia al solito orario: le sei e mezza. Il sole sorge presto a questa latitudine, e considerando che siamo nell’estate dell’emisfero australe, la luce arriva prima, e questo mi consente di poter stare fuori a pedalare più tempo. “Ma chi me la fa fare? … e poi questa l’avremmo chiamata vacanza?”
Giorno 9: Tres Lagos – El Calafate (bici) STERRATO – ASFALTO
Bip, bip … è la sveglia. Sono le sei e mezza, mi risveglio da un sonno profondo e piacevolissimo. Che voglia di restare nel sacco a pelo a poltrire e continuare a dormire. Entra Karl avvolto nel sacco a pelo.
“Sto male, non riesco a partire perché mi è venuta la febbre, ma volevo lo stesso salutarti”.
“Aspetta, ti do un paio di aspirine”.
Rovisto nella sacca alla ricerca del medicamento, trovo anche un antibiotico, che Karl ingurgita insieme ad una delle due aspirine, senza alcun ausilio d’acqua. Karl è medico. L’arrivo di Karl mi ha aiutato ad abbandonare, senza troppo farci caso, il tepore del mio giaciglio; è un’operazione molto faticosa e pesante da affrontare soprattutto per il freddo che fuori dalle coltri mi attende e mi attenderà ogni mattina nei giorni a venire. Mi sto abituando al freddo!
Mi rivesto rapidamente, una volta fuori dal sacco a pelo il freddo mi aiuta ad essere molto rapido in tutti i preparativi e alle sette del mattino sono fuori, pronto ad affrontare una tappa lunga e difficoltosa, Tres Lagos – El Calafate, di circa centosessanta km, che mi terrà per quasi quindici ore in sella a pedalare, arrivando a El Calafate per le dieci di sera. Prima di partire, ripasso a salutare Karl, e gli scambi di saluti sono da libro cuore versione norvegese. Parto, ma siccome non ho buttato nello stomaco assolutamente nulla, decido di fare una rapida colazione alla stazione di servizio del giorno prima, a base di mini cornetti e due tazze di caffè lungo acquistate al distributore automatico di bevande calde. Si, ora sono veramente pronto per affrontare il viaggio a base di polvere, lacrime, sudore e sangue, per parafrasare un messaggio promozionale di una gara di mountain bike a Verona. I ciclisti sono gente strana!
Direzione El Calafate – Verso la Cordigliera
Non c’è tanto vento, anzi per lo standard patagonico, posso tranquillamente affermare che non ce n’è. La giornata è da cielo terso, di un azzurro intenso e limpido, che nulla ha a che vedere con le tonalità marroncine dei nostri cieli. La strada sarà di quelle decisamente trafficate, in cinque ore passeranno ben cinque macchine ed un paio di pulmini. È natale. Il cartello stradale all’uscita da Tres Lagos indica la direzione per El Calafate e riporta anche la distanza di centoquarantadue km, quasi tutti di “ripio”. “In bocca al lupo e buon Natale, Federico” mi auguro da solo tutto il meglio per questa giornata, che si preannuncia bellissima. Per la prima volta vedo i guanachi in branco ai lati della strada, che al solo scorgermi da lontano si allontanano prudentemente a distanze chilometriche. La strada è nelle condizioni descritte da Karl, ossia consente una pedalata regolare, anche se in alcuni tratti l’eccessiva presenza di sassi e piccoli avvallamenti spezzano un po’ troppo il ritmo. Arrivo al bivio per El Chalten.
Direzione El Calafate – Il bivio per El Chalten
Il tempo ed i programmi sono tiranni, avrei voglia di deviare ed andare a vedere il famoso Fitz Roy, dove gli scalatori italiani hanno scritto pagine memorabili della storia delle ascensioni. Le Ande “cominciano” a far notare la loro presenza, sono lontane, ma fanno impressione per la maestosità che le caratterizza. Incutono rispetto, già a questa distanza, quasi un centinaio di chilometri dalla cordigliera. Stiamo parlando di cime che arrivano a superare i seimila metri. Le cime del Parque Nacional los Glaciares sono imbiancate, coperte dalle neve, mentre la base è tutta grigia. Sopra di loro, sopra di noi, il cielo azzurro e terso che consente di vedere orizzonti lontanissimi. Sicuramente il vento contribuisce molto a tenere “pulito” il cielo dai grigiori inquinanti, ma un cielo così bello l’avevo visto solo in Giordania nel deserto del Wadi Rum, quando guardandomi intorno non riuscivo a capacitarmi di che cosa ci stava “colpendo”, in quella ultima ora di luce, nel bel mezzo del deserto: era il cielo.
Direzione el Calafate – Il lago Viedma
Riprendo a pedalare e poco dopo appare il lago Viedma, che insieme al lago Argentino, suo “vicino” di valle, condivide il luogo di nascita, il Gran Campo de Hielo Patagonico, un gruppo di montagne che è diventato parco nazionale. La strada costeggia il ramo orientale del lago che si sviluppa per lungo da ovest, a ridosso della cordigliera, verso est, ed è di un blu tendente al “bianco ghiaccio”. Sono ad un paio di chilometri dalla riva del lago, ma il colore dell’acqua mi trasmette una sensazione di freddo, anche senza averla minimamente toccata. La strada comincia a farsi pesante; il vento e la vicinanza al lago, hanno contribuito a creare un manto sabbioso, che provocano frequenti insabbiamenti e conseguenti discese di sella per superare a piedi i tratti più difficili. Karl me lo aveva detto. “La strada vicino al lago Viedma è molto antipatica a causa di presenza di dune di sabbia”. Aveva ragione. Ne approfitto per fermarmi a mangiare un boccone a lato della strada, in compagnia del vento che è tornato a fare capolino. Il vento è diventato come l’aria che si respira: nessuno nota mai la presenza dell’aria da respirare, c’è, e basta. Inconsapevolmente ormai, scarto naturalmente le cose proteggendole con il corpo, cerco naturalmente l’orientamento con le spalle al vento, socchiudo naturalmente gli occhi quando le folate aumentano di intensità. Sono seduto su un gradino in cemento, che delimita un ormai noto ponticello di scorrimento acque, che passa sotto la strada, e sull’altro lato, appoggiata ad un sasso, campeggia la bici, intorno a noi l’infinito. Sto mangiando, non mi manca nulla per godere appieno del momento, anche se a pensarci bene il contrasto con il mondo dei consumi e di tempeste comunicative da cui vengo è stridente. La vita è fatta di cose semplici, una volta di più e sempre più fortemente ribadisco a me stesso questo semplice concetto. Coniugare la semplicità della vita con una filosofia della stessa imperniata sul viaggio e la conoscenza degli altri e del proprio io è sicuramente una buona formula per il conseguimento di uno stato di costante felicità.
Viaggiamo per scoprire noi stessi, lungo il cammino della vita, viaggiamo per scoprire mondi lontani, culture, persone diverse da noi e luoghi diversi da quelli a cui siamo abituati. È viaggio l’esperienza amorosa con la propria compagna o compagno, un viaggio pieno di sensazioni emotive. Ogni viaggio porta ad un traguardo, ed ogni traguardo genera un nuovo viaggio. Riuscire a dare significati e ricavare valori da ogni viaggio che intraprendiamo è l’essenza della felicità. La mia vita è qui, adesso, e non domani e altrove. Se non riesco a viverla oggi, non c’è nessuna speranza che possa farlo domani. I venti minuti di pausa dedicati al mio sostentamento, al riposo delle mie membra, ai mille pensieri che nascono spontanei nella mia testa, passano piuttosto velocemente, ma come ce li siamo goduti. Riprendo a pedalare in una ampia vallata percorsa da un rio d’acqua e dopo dieci chilometri ecco “l’estancia” la Leona. Non importa se ho mangiato da appena un’ora, ho imparato a caro prezzo che in Patagonia la parola “la prossima” non va utilizzata, soprattutto quando si viaggia pedalando, “e poi un buon tè con una buona fetta di torta me la merito, ohhh …”. All’interno, tante cartine, cartoline, pubblicità e foto dedicate alla montagna, appese alle pareti. Non c’è nessuno, chiamo e d’improvviso mi si parano davanti due ragazze dal sorriso smagliante, wowww.
Direzione El Calafate – Pausa torta a La Leona
Tutta la mattinata è passata ad osservare guanachi e qualche essere umano al di la dei parabrezza delle vetture che ho incrociato, ora mi si para dinanzi cotanta bellezza che mi mette in serio imbarazzo nel tentare di mascherare lo stupore ed allo stesso tempo il piacere di rivedere il sorriso di una donna, anzi due. Domando un tè ed una fetta di torta. Un sottofondo di musica rock anni settanta e ritmi eolici che investono la struttura, conferiscono al momento soavità. La stanchezza accumulata mi sta scivolando via e la pace dei sensi mi investe, vorrei restare per qualche altro infinito momento, ma la giornata di viaggio è ancora lunga, mancano ancora la metà dei chilometri. A malincuore, dopo avere esitato ancora qualche minuto, mi alzo e mi dirigo verso il bancone per pagare. Riprendo a pedalare in un tratto di “ripio” dove il vento mi è contrario, ma la cartina mi rassicura sul fatto che fra pochi chilometri la strada piegherà a sinistra quel tanto da farmi avere il vento a favore. La strada comincia a salire; sto percorrendo una vallata dalle pareti piuttosto verticali, non molto profonda, ma piuttosto stretta. Il panorama è piuttosto arido; c’è un corso d’acqua che scorre lungo la valle, ma probabilmente le temperature troppo rigide ed il vento, non consentono alla vegetazione di attecchire. Solo ciuffi d’erba e cespugli, molta terra e sassi. Superata la salita, in discesa il vento inizia a spingermi alle spalle; la velocità aumenta a dismisura, rispetto ai tratti in piano ed in salita affrontati fino ad ora; torno a cercare il miglior equilibrio, ma arriva la buca, un colpo secco, et voilà il cerchio posteriore sconquassato e volo di una delle due sacche. È bastato mollare un attimo ed è arrivata puntuale la botta. Mi fermo a raccogliere i pezzi, e mi metto a smontare la ruota posteriore. Il cerchio si è deformato su un lato, piegandosi verso l’interno, e adesso preme in maniera preoccupante sulla camera d’aria. Recupero la pinza nella sacca degli attrezzi e provo a riportare nella sua antica forma il lembo di cerchio piegato; riesco in qualche modo, anche con l’aiuto di un sasso trasformato in martello, a ripiegare il cerchio. Rigonfio la ruota, la rimonto, riaggancio le sacche e mi fermo cinque minuti a riprendere fiato; smontare una ruota per poi rigonfiarla e poi rimontarla, è una di quelle operazioni che un ciclista definisce spossanti. La sbornia da “la vita è bella” a cinquanta chilometri orari è finita, torno a pedalare con la calma e l’attenzione del viaggiatore esperto e attento, inoltre la discesa è ormai quasi terminata, così come il vento a favore. Nella vallata disegnata dal fiume, ogni tanto mi trovo a passare sotto soffitti di roccia che delimitano il lato di valle che sto percorrendo. Incrocio saltuariamente macchine e piccole corriere che fanno la spola fra El Calafate e El Chalten. L’ultima salita. Un breve strappo, che mi porta fuori dalla vallata che ho percorso fino ad ora, per condurmi su un altipiano che digrada soavemente verso il lago Argentino, al sud del quale c’è El Calafate, mia meta d’arrivo. Il vento ha ripreso a soffiare di traverso, ma non mi disturba. Il cielo si sta coprendo, ma le nuvole, come d’abitudine, viaggiano veloci e quindi i momenti d’ombra si alternano a quelli soleggiati con estrema rapidità. Sono ormai le sette di sera, decido di fermarmi per rifocillarmi.
Direzione El Calafate – Un po’ di colore!
Riparto, e dopo poco mi si para sulla mia destra la visione del lago Argentino; sto scendendo da un crinale, e quindi la vista è decisamente suggestiva, una immensa massa d’acqua appoggiata in mezzo a montagne imponenti. Anche il lago Argentino, come il suo fratello Viedma, si sviluppa da ovest verso est, seguendo l’orografia della cordigliera che ne alimenta il bacino con i suoi ghiacciai e ne disegna la forma allungata con le sue creste che diradano verso gli altipiani patagonici ad oriente. Dall’altro lato c’è El Calafate, ma la distanza è tale che riesco solo a intravedere, meglio immaginare, che possa essere “laggiù”. All’incrocio con la “Ruta 11”, gli ultimi trentadue chilometri per giungere al El Calafate, ne avrò percorsi più di centotrenta. Al lato della strada macchine di villeggianti natalizi parcheggiate lungo gli argini del fiume Rio Santa Cruz, che dal lago Argentino arriva fino all’Oceano Atlantico. Dal cielo sono sparite le nuvole ed il sole è tornato a ravvivare i contrasti fra l’intensità del blu della superficie del lago, l’azzurro del cielo, il marrone della terra ed il verde di contorno ad alcune pozze d’acqua.
Direzione El Calafate – Dal “ripio” all’asfalto dopo 500 km
Arrivo all’incrocio con la “Ruta 11” e rimetto piede sull’asfalto. Finalmente! Non ce la facevo più a sopportare i continui colpi trasmessi dalla sella al mio sedere, originati dalle continue asperità del “ripio”. Sul lato opposto della strada due ragazzi israeliani in cerca di un passaggio, da ormai quasi tre ore.
“Ti abbiamo passato, eravamo sulla macchina della polizia”.
Direzione El Calafate – Mancano ancora 32 km
Sono le otto di sera, il cartello stradale indica El Calafate 32, meno di due ore e poi doccia e pappa. Mi faccio immortalare da uno dei due ragazzi in sella alla bici, con una ruota sullo sterrato della “Ruta 40” da cui provengo e l’altra sull’asfalto della “Ruta 11”. Sarà una scemenza, ma ho fatto più di quattrocento chilometri di ripio, rimettere piede sull’asfalto mi procura una certa soddisfazione. Rimango a chiacchierare con i due per un po’: è una mini festa multietnica. Siamo ragazzi in viaggio con mezzi diversi, provenienti da luoghi differenti, ma abbiamo la stessa voglia e curiosità di conoscere, vedere, cercare di capire meglio il mondo, con l’obiettivo di migliorarci dentro. Conoscere se stessi, diceva Platone, in viaggio, aggiungo io. Ci salutiamo ed io riprendo il mio viaggio verso El Calafate. Nonostante il sollievo di essere tornati a pedalare sull’asfalto sia grande, mi “accorgo” nelle gambe che sono solo dodici ore che sto pedalando! La strada non è in piano, costeggia il ramo meridionale del lago Argentino, ma sufficientemente nell’entroterra da rendere i saliscendi particolarmente impegnativi per un ciclista che come me ha alle spalle una giornata intera di pedalate. Il sole sta calando dietro le montagne della Cordigliera, il vento continua ad essere presenza costante e mentalmente preparo il mio fisico per resistere e continuare per l’ultimo tratto.
Arrivo a El Calafate con il sopraggiungere dell’oscurità, poco prima delle dieci. Trovo alloggio nell’ostello, in un comodo letto al secondo piano di un letto a castello in una camerata piena di ragazzi in viaggio. Non perdo tempo, doccia, lavaggio indumenti da bici usati durante il giorno e poco prima delle dieci e mezza sono a tavola dove servono ancora bistecche alte due dita, patate e birra, il tutto accompagnato dalla musica di Paris, Texas di Ry Cooder, che conferisce al finale di giornata un che di magico. Sono stato in viaggio per più di tredici ore, la stanchezza si fa sentire nel fisico e anche nella testa, ma con le pochissime energie rimaste provo soddisfazione nell’aver vissuto intensamente ogni momento della mia giornata di viaggio; torno con la memoria, fresca, a tanti piccoli istanti vissuti e non posso trattenere inevitabili sorrisi di soddisfazione.
Chiedo informazioni per un passaggio l’indomani verso il Glacier Perito Moreno, vi sono due bus che partono la mattina presto dal piazzale antistante l’ostello e ci sono ancora posti. Acquisto il biglietto.
Giorno 10: El Calafate (sosta con visita Ventisquero P. Moreno)
La mattina una piccola folla si accalca per prendere posto nel bus che ci porterà al ghiacciaio Perito Moreno. Mi sono alzato un po’ più tardi del solito, ma sento ancora addosso la fatica del giorno prima e come è comodo il sedile del bus rispetto alla sella della bicicletta! Scopro che il trasferimento verso il ghiacciaio, comprende anche una guida, ho perso l’abitudine a farmi guidare, ma oggi sarà giornata da “farsi trasportare” e accetto di buon grado. Da El Calafate al ghiaciaio Perito Moreno ci sono circa 80 km.
El Calafate – Verso el Glacier Perito Moreno
El Calafate – Verso el Glacier Perito Moreno
Ci fermiamo lungo il percorso in una radura che è il festival dei colori pastello. Il ghiacciaio si comincia ad intravedere, ma su iniziativa della guida veniamo sbarcati dietro una collina, dove affrontiamo un sentiero stretto in salita. L’ultimo tratto la guida ci chiede di darci la mano l’un con l’altro e di chiudere gli occhi. Percorriamo così gli ultimi metri al buio, fino a quando la guida non ci da il segnale di riaprirli e davanti a noi si para uno degli spettacoli della natura più belli e incredibili che a noi umani è dato di assistere: il ghiacciaio del Perito Moreno. Siamo di fronte ad una immensa massa di ghiaccio la cui vastità lascia senza fiato. Veniamo lasciati liberi di scorazzare per oltre due ore, che passeranno velocemente, tanta sarà la bellezza che riempirà la nostra vista. Il ghiacciaio assorbe i miei pensieri, il mio essere, per tutto il tempo che resterò a guardarlo, mi sorprendo a restare incantato a guardarlo per lunghissimi minuti, e per me che credo nel Dio cristiano, la riflessione “Dio esiste” sorge spontanea.
El Calafate – Il Perito Moreno, ancora lontano ma imponente
El Calafate – Il Perito Moreno, sempre più imponente
El Calafate – Il Perito Moreno, si svela
El Calafate – Il Perito Moreno
El Calafate – Il Perito Moreno
El Calafate – Il Perito Moreno
Rientriamo a El Calafate dopo oltre cinque ore, pervasi da una candida serenità e leggerezza. Resto a vagabondare per il paese di El Calafate per il resto del pomeriggio, la visione del ghiacciaio, il non dover raggiungere nulla, per oggi, mi mettono in una condizione di pace dei sensi.
El Calafate – Internet
Acquisto il biglietto del pullman per il giorno dopo, da El Calafate e Puerto Natales, Cile.
Rientro verso sera all’ostello, dove bistecche, patate, musica, folle di ragazzi in viaggio, musica e chiacchiere con altri viaggiatori concludono la mia giornata.
Day 11: El Calafate – Puerto Natales (Cile) (pullman)
La mattina imbarco la bici, sapientemente imballata il giorno prima, e il resto del bagaglio, nella stiva del pullman per Puerto Natales. Sono oltre duecentocinquanta chilometri di strada, di cui più della metà su sterrato e contro vento, non posso affrontarli in bici se voglio essere per la fine del secolo “a la fin de el mundo”. Mi dispiace dovere rinunciare a viaggiare con la bici, ma il paesaggio che scorgo dal finestrino durante il viaggio, mi conforta sulla bontà della decisione presa, non c’è traccia di presenza umana fra El Calafate e il 28 de Noviembre se non qualche installazione militare all’approssimarsi di quest’ultima. Al passaggio di frontiera mi accorgo di come argentini e cileni non si amino, lunghi controlli su entrambi i versanti, figli peraltro di una svogliata burocrazia testimoniano come il passaggio da un paese all’altro non sia facilitato, tutt’altro! Giungiamo poco dopo a Puerto Natales, distante pochi chilometri dalla frontiera e ad accoglierci una folla di persone che offre camere in affitto, non amo essere assalito e mi porto in disparte per rimontare la bici. Poco dopo la folla di viaggiatori e “affittatori” si dirada e rimane una signora che discretamente si avvicina e mi chiede se ho dove dormire per la notte. Non deve essere abituata a buttarsi nella mischia delle proposte di affitto all’arrivo del pullman, sembra alle prime armi e questo me la rende simpatica e ad accettare la sua proposta di andare a soggiornare presso la sua famiglia per quella notte. Finito di rimontare la bici, disposti i bagagli su di essa, mi avvio a piedi con lei verso la sua casa. In casa sono tutti molto gentili, la stanza dispone di un ottimo letto e ampio spazio per disporre i bagagli. Mi informo a che ora la mattina seguente posso fare colazione, in quanto mi aspettano oltre duecentocinquanta chilometri di strada da fare in bici fra Puerto Natales e Punta Arenas, “quando quiete”, mi accordo per un “desayuno” alle sei e mezza. Esco a visitare Puerto Natales, il cielo è percorso da nuvoloni che spesso coprono il sole, il vento, sempre lui, non manca.
Puerto Natales – Cielo e mare, il vento muove tutto
Puerto Natales – Pescherecci al porto
Puerto Natales – Pescherecci e bici
Puerto Natales – La mano e le dita di Pinochet
Puerto Natales – Latitudine sud 51° 43’ 39
Visito il porto, affollato di pescherecci, le acque sono molto pescose e la pesca è una delle risorse su cui vive la comunità, latitudine e vento non favoriscono l’agricoltura, al massimo la pastorizia. Siamo alla latitudine 51° sud e anche se siamo nella stagione “calda” la temperatura, quando il vento spira (sempre!) e le nuvole in cielo coprono il sole è decisamente “bassina”. In bici percorro in lungo e in largo Puerto Natales, cambio i soldi in quanto in Cile non mantengono parità cambiarie di sorta con il dollaro USA e quindi bisogna acquistare con moneta locale. Decido di dirigermi presso il locale negozio di bici, per sistemare un preoccupante gioco al movimento centrale e non avendo le chiavi della giusta misura non posso farlo io. Il proprietario del negozio, che poi alla fine è poco più grande di una bottega, mi fornisce tutta l’assistenza del caso e mentre mette mano alla mia alla mia fida compagna di viaggio si avvede della sella con gel e se ne innamora, mi chiede se può comprarmela, che sarebbe una novità assoluta per Puerto Natales, “mi serve, devo ancora farci cinquecento chilometri con lei, ma prometto che se torno te la vengo a portare”. L’intervento non sortisce l’effetto sperato, è tutto il movimento centrale ad avere un problema di gioco, e non, come speravo, un problema di dadi serrati poco. Ringrazio e continuo nel mio tour, visitando le dita di Pinochet che “contengono” il Cile sbucando dalla terra di P. Natales. Sono tentato di spingermi a nord verso il parco Torre de el Paine, ma dopo alcuni chilometri contro vento decido di fare marcia indietro, “tornerò” sussurro a me stesso.
Day 12: Puerto Natales – Punta Arenas (bici) ASFALTO
Sveglia presto, colazione alle 6.30 di mattina, fuori, data la latitudine c’e’ già luce. Inizia la tappa più lunga del mio viaggio in Patagonia, oltre 250 km, confido nelle informazioni di Karl e nel fatto che il percorso sarà a favore di vento. Forse ho esagerato, ma sconto anche la intima penitenza autocomminatami per essere stato due giorni, ben due, lontano dalla bici. Cielo coperto, ma non piove, solo numerosi nuvolosi in cielo, il sole, è completamente offuscato, e vento, lui non manca mai all’apputnamento. Uscendo da P.to Natales affronto un leggera salita, sono su asfalto, anzi su cemento, lastroni di cemento, peraltro per il primo tratto di strada disposti solo per la corsia a venire verso P.to, mentre sul mio lato di marcia pedalo su “ripio”, molto regolare, e che non ha molto da invidiare alla superficie di cemento. Nonostante stia percorrendo l’unica strada che congiunge P.to Natales a Punta Arenas, ultima “metropoli” cilena del sud, il numero di veicoli che la percorrono è decisamente basso, intorno alla decina ad ora per entrambi i sensi di marcia. Sbuca dalla vegetazione, al lato delle strada, il tipico “gaucho” a cavallo, siamo entrambi in sella, e mi verrebbe da chiedergli se ha voglia di fare una inversione di cavalcatura, per una foto ricordo, ma non c’e’ molto tempo dopo il saluto, in quanto parte al galoppo lontano da ogni possibilità di comunicare. La strada, dopo la breve salita iniziale, è piuttosto regolare come andamenti altimetrici e l’andatura, grazie anche alla pavimentazione in cemento, adesso anche sul lato di marcia che sto percorrendo, è decisamente buona. Mi avvedo della presenza del vento soprattutto quando mi fermo per un po’ di pausa salutare, le indicazioni di Karl si rivelano veritiere e anche la tendenza del vento a spirare verso l’Atlantico e quindi verso est. Una decisa curva a sinistra mi porta ad avere il vento in poppa e torno a provare velocità da motorizzato, la spinta è tale che in alcuni tratti non riesco più a pedalare, tale è la velocità. WOWWW!!. Incrocio una ragazza americana, ciclista anche lei, che ha iniziato il suo viaggio da Ushuaia diretta a nord, scambio di complimenti e proseguiamo ognuno nella sua direzione. A Morro Chico, mini insediamento urbano, ne approfitto per farmi fotografare insieme al locale agente della stazione di polizia.
Direzione Punta Arenas – Foto copn “l’autorità”
Passato Morro Chico, la strada piega decisa a sud e il vento riprende a spirare laterale e a volte anche un po’ contrario, riducendo la media di percorrenza e facendo aumentare gli sforzi per avanzare. Il cielo, sempre percorso da nuvole è terso e azzurro, e il sole ha preso possesso della volta celeste.
Direzione Punta Arenas – Cabina antivento
Incontro un motociclista tedesco che è in viaggio da poco meno di un anno con una, manco a dirlo, BMW GS, quella della Parigi Dakar.
Arrivo a Punta Arenas poco dopo le sette di sera, ho percorso l’incredibile distanza di oltre duecentosettanta chilometri in dodici ore!
Non trovo alloggio presso l’ostello segnalato dalla guida ma trovo posto in un albergo dal gusto molto retrò, ai limiti del barocco. La sera, oltre alla solita cena a base di patate e bistecca gigante, con doppio boccale di birra, mi avventuro “fuori” lasciandomi trasportare dalle luci e i rumori della metropoli, che sta diventato una entità per me distante e da “scoprire”.
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Punta Arenas
Giorno 13: Punta Arenas – S. Sebastian (Argentina) (bici) STERRATO
Giornata con cielo coperto, mi avvio all’imbarco per attraversare lo stretto di Magellano, che per chi va per mare è sinonimo di naufragi epici. È uno stretto, apparentemente innocuo, ma la storia racconta di tempeste, correnti e uragani che hanno reso pericoloso il suo attraversamento per quelle navi che hanno cercato di sfidarlo. Oggi, fortunatamente, non è giornata da uragani, ma il cielo coperto, la temperatura piuttosto rigida, il vento e quel minimo di onda che fa ballare il traghetto all’ormeggio, danno la sensazione di un inizio giornata da lupi di mare. All’imbarco incontro un altro ciclista, giapponese; la sua bici è carica al pari della mia ed è inevitabile la domanda “where are you going?”.
Punta Arenas – Ciclisti all’imbarco per Porvenir
Punta Arenas – Il traghetto
Andiamo tutte e due nella stessa direzione, con naturalezza decidiamo di fare la tappa di oggi insieme. Il traghetto parte, l’onda lungo la rotta miete le sue vittime; i molti, che prima di partire si sono fatti prendere dalla “frenesia del bar”, consumando per consumare, adesso pagano dazio, andando a vomitare all’esterno e deambulando pallidi e privi di forze lungo l’unico ponte del traghetto. All’arrivo a Porvenir, il vento increspa la superficie dell’acqua all’interno della darsena e il sole fa la sua prima apparizione di giornata.
Porvenir – Traversata del canale di Magellano finita
Mi ritornano alla mente le parole di Karl: “fra Porvenir e San Sebastian, con il vento alle spalle raggiungerai velocità da capogiro”, ed in effetti la carta dice ovest-est ed il vento continua a soffiare da ovest verso est. Sono in Tierra del Fuego, la Isla Grande! E’ iniziato il viaggio verso il sud del sud!
Sbarchiamo, mi ricongiungo al mio compagno di viaggio orientale e anche se la nostra comunicazione in inglese è molto di base, ci accordiamo per partire. Mi soffermo a fare un paio di scatti e poi inizio a “puntare” il mio compagno di viaggio che si è ormai già allontanato all’orizzonte. Siamo in un tratto in piano e abbiamo appena iniziato, io sto studiando il suo passo e mi rendo conto che ha un passo inferiore al mio, ma non sono in gara con nessuno e quindi decido, una volta raggiunto, di rallentare il mio ritmo. Purtroppo, la prima salita evidenzia come i nostri ritmi di viaggio siano piuttosto distanti, non cerco di spingere, ma nonostante questo vedo che non ce la facciamo a restare insieme; alla seconda salita, decido di aspettarlo in cima per salutarlo e augurargli buon viaggio, purtroppo abbiamo velocità troppo diverse e dobbiamo tornare a viaggiare da soli, ognuno con il suo “rythm & soul”. Peccato! Due pedalate in compagnia, in Patagonia, non mi sarebbero dispiaciute.
La strada piega verso sud ed è un continuo salire e scendere; le velocità da capogiro indicate da Karl, sembrano essere una lontana chimera. In preda agli sforzi per superare gli “strappetti” in salita che si alternano alle brevi discese, comincio a pensare male di Karl, “ma che strada ha fatto? dove ha pedalato? possibile che un ciclista possa fornire indicazioni così grossolanamente sbagliate? Porcaccia miseria!”. I saliscendi, come tutto nella vita, finiscono, la strada piega decisa verso est e il vento, che non ci ha mai abbandonato, ci spinge da dietro. “Scusa Karl” penso a quanto impaziente e ancora una volta poco viaggiatore sia stato nel voler frettolosamente giudicare. Il ripio è di quelli da percorrenza veloce, non capisco se sono leggermente in discesa, o è l’effetto ottico dello schiacciamento all’orizzonte, ma la bici va da sola, la velocità è tale che solo roteando a mo’ di mulinello le gambe riesco a sentire un po’ di resistenza sui pedali. Sto andando come un missile e come al solito Woww, che bello!
Direzione S. Sebastian – Ultime curve …
In poco meno di otto ore arrivo alla frontiera, fra Cile e Argentina. Mi fermo in un locale vicino al passaggio di frontiera, sono l’unico avventore in una sala immensa, sorseggio una Coke e sgranocchio un po’ di arachidi poste sul bancone.
Termino la mia tappa presso l’hotel ACA (Automovil Club Argentino) a una decina di chilometri da San Sebastian, con tanto di stanza gigantesca, letto gigantesco e confortevole bagno con vasca. L’acqua esce con il contagocce, ma decido di regalarmi un bagno caldo prima di andare a dormire, il primo e unico, ma indimenticabile!
Giorno 14: S. Sebastian – Tolhuiin (bici) ASFALTO
Sveglia, e pronti via, di nuovo in sella puntando a sud. La giornata è coperta, che novità, ma sono tornato a pedalare sull’asfalto. Ho cambiato i copertoni, passando dalle ruote grasse (modello tassellato) ad una ruota liscia e più sottile, che con la sua superficie di contatto inferiore, genera minore attrito e migliora lo scorrimento. La strada segue la costa, con leggere variazioni altimetriche, il vento, sempre presente, è trasversale, ma non nuoce, anzi. Dirigo verso Rio Grande, l’ultima “metropoli” prima di Ushuaia.
Rio Grande – Bici e trattori
All’arrivo, nonostante abbia “salutato” Punta Arenas solo due giorni or sono, mi sento “sbattuto” da traffico, rumori, insegne e il manifestarsi delle frenetiche attività cittadine ad opera dei locali abitanti. Pedalo con calma, alla ricerca di qualcosa, che nel pedalare capisco essere un posto dove fermarmi a mangiare. Trovo una fantastica hostaria, dove mangio una immensa cotoletta con patate al forno e accompagnata da una Coke ghiacciata. Prima di saldare il conto mi faccio preparare un panino con cotoletta e pomodoro, talmente grande che me lo faccio tagliare in due, per poterlo inserire nelle sacche. Uscendo acquisto della frutta e con molta calma, pedalando distrattamente, inizio ad uscire da Rio Grande. La protezione delle case sparisce e dovendo affrontare un tratto di un paio di chilometri completamente contro vento, svanisce ogni forma di relax e distrazione. Siamo ritornati a lottare contro il vento, siamo l’uno contro l’altro. Questo è il tratto che Jovanotti descrisse come impossibile, con folate di vento tali da farlo desistere e chiedere un passaggio. Il vento spira dannatamente forte e a raffiche, sarebbe difficile mantenersi in piedi stando fermi, io invece sto cercando di avanzare contro di lui. Rischio più volte la vita, a causa di frequenti e non volute deviazioni verso il centro della strada, il vento mi strappa il manubrio dalle mani, arrivando a sollevare la ruota anteriore da terra, e diventa impossibile cercare di avanzare lungo una linea retta. Avanzo a zig-zag, sperando che da dietro non mi colpisca qualche mezzo a motore. Sono ripiegato in avanti il più possibile, per ridurre al massimo la superficie del mio corpo investita dal vento e diminuire l’effetto vela. Davanti a me scorgo la lunga curva ad U che mi consentirà di variare la mia rotta di circa 120° rispetto a quella attuale, so che li c’e’ la fine della lotta. Inizio a curvare, c’e’ l’impazienza di vedere cosa succede; la curva è ad ampissimo raggio, più di un chilometro per percorrerla tutta, ma comincio ad accorgermi che qualcosa sta cambiando dal maggiore controllo che comincio ad avere sulla bici, e dal poter iniziare a inserire marce meno da salita estreme; alla fine il vento torna a sospingermi. Una sensazione incredibile! Prima la tempesta, la fatica, il lento e difficile incedere, adesso tutto si è fatto più soave e dolce.
Direzione Tolhuiin – Abbiamo “girato” intorno al vento
Mi volto a guardare quel tratto di terra in tempesta e sorrido soddisfatto per essere riuscito, ma anche per essere scampato al pericolo di un investimento.
La strada è la solita striscia d’asfalto che si perde nell’infinito, la vegetazione è ad alto fusto, e questo ci fa da scudo, in parte, contro il vento. Inizia a piovere, il sole, da quando siamo partiti, non è mai apparso, le nuvole hanno “intasato” il cielo e adesso hanno cominciato a scaricare acqua, anche se in forma di piccole gocce. La pioggia mi da consapevolezza della fatica accumulata, e comincio a sentire un po’ di pesantezza nelle gambe. La strada asfaltata torna ad essere ripio e dopo poco sopraggiungo a Tolhuin, la pioggerellina non molla la presa, e mi ha inumidito quel tanto che basta per iniziare a sentire il bisogno di un riparo. Chiedo all’unico distributore del paese dove trovare riparo e mi viene indicato l’unico hotel presente in paese, praticamente dietro il distribuotire. Sono alla porta di ingresso, ma è chiusa; busso, nessuno, ribusso, niente! Guardo attraverso la vetrata, dentro buio e silenzio. Torno al distributore chiedendo lumi, mi dicono che “probabilmente, la proprietaria è uscita”. Mi rassegno ad attendere fuori, sotto la pioggerellina, sperando che qualche cosa accada. Passa una mezz’ora e scorgo nel buio, all’interno, un’ombra muoversi, busso freneticamente e mi viene ad aprire un ingegnere brasiliano ospite dell’hotel. Mi spiega che la proprietaria si è assentata, chiedo se posso restare all’interno, per ripararmi dalla pioggia e anche perché il freddo si sta facendo pungente. Mi accomodo su una poltrona in attesa, e dopo un’altra ora arriva finalmente la proprietaria con cui mi accordo per la notte. A cena sono con un gruppo di ingegneri brasiliani, che alloggiano da tempo presso l’albergo, in quanto stanno costruendo la strada asfaltata fra Tolhuin e Ushuaia, e a fronte della mia domanda “come mai servono degli ingegneri brasiliani per asfaltare una strada in Argentina” la proprietaria inizia una filippica sulla scarsa propensione degli argentini a voler lavorare, “no tengon gana …” (non hanno voglia). La guardo con un sorriso, pensando a quanto sia vera questa sua affermazione per lei, argentina, che mi ha tenuto due ore in attesa sotto la pioggia. A volte la vita è fatta di pagliuzze e travi negli occhi! La cena è molto gradevole, siamo una tavolata molto internazionale (italiani, argentini, brasiliani e un uruguayano) la temperatura calda della cucina (“mangiamo in cucina che si sta più caldi”) e la “comida” abbondante a base di purè, carne, verdure e frutta, unitamente ad una fioca luce, ci regalano una calda serata. Le stanze non sono riscaldate, ma i letti sono dotati di numerose coltri, sotto cui potersi immergere e riscaldare. “Buonanotte Federico, domani saremo ad Ushuaia, a la fin de el mundo a la fin de el sieglo!”.
Giorno 15: Tolhuin – Ushuaia (bici) STERRATO – ASFALTO (fine viaggio in bici)
Mi sveglio e mi accorgo di avere una grossa difficoltà ad abbandonare il mio letto. La differenza di temperatura fra “sotto le coltri” e il resto della stanza si sente tutta. Sicuramente influisce la mancata accensione del riscaldamento da parte della nostra “gentile e attenta” padrona di casa, ma pesano ormai i tanti chilometri percorsi, una alimentazione non sempre impeccabile ed anche uno scarico di adrenalina dovuto al fatto che mancano meno di cento chilometri all’arrivo. Inizio a soffrire il freddo subito, fa freddo, mi vesto rapidamente, e provo solo un leggero sollievo al momento della colazione in cucina, ancora calda dalla notte prima, ma non a sufficienza. MI rimetto in strada, la pioggia non c’e’ più, ma il vento si, lui c’e’, ed è freddo. Fa freddo, ma lo sforzo nel pedalare mi riscalda. La strada si apre sulla splendida vista del lago Fagnano, gli alberi hanno perso le loro chiome e davanti a noi si para uno scenario di tronchi d’albero completamente scorticati e senza foglie e rami, ridotti a semplici pali di legno, piuttosto spettrali.
Direzione Ushuaia – Foreste devastate, castori?
Per proteggermi dal vento, indosso la solita giacca in Gore-Tex che svolge bene la sua funzione antivento, ma inevitabilmente aumenta la sudorazione corporea, trattenendo il sudore a contatto con la pelle. Nulla di male, quando sono in sella e pedalo, ma estremamente drammatico allorquando mi fermo per mangiare un panino, sbattuto dal vento e con il sudore che mi si asciuga addosso. Torno a tremare dal freddo! Ingoio il panino con cotoletta di Rio Grande tremando, provo a sedermi su un cumulo d pietre, ma non c’e’ ridosso, devo alimentarmi, perché da li arriva il combustibile per il mio motore, oltre ad avere bisogno di una sosta per poter riposare le stanche membra, ma tutto dentro di me trema, e non è paura. Non mi godo nulla, ne panino, ne pausa, sono costretto a ricercare tepore nel tornare a pedalare e faticare. Che strane vacanze di Natale queste! La strada è piuttosto trafficata, molti stanno andando ad Ushuaia per la fine dell’anno, è il 31 dicembre 1999, domani sarà il primo gennaio del 2000. Il 2000 è arrivato! Decido di deviare per la strada lungo il lago, abbandonando la via principale che sta salendo verso l’ultimo valico del viaggio; so che sto decidendo scientemente di affrontare una salita nettamente più dura, scegliendo di scendere verso il lago, ma preferisco vedere rispetto alla frenesia dell’arrivare.
Direzione Ushuaia – Lago Fagnano
La strada lungo il lago vale la decisione presa e mi fermo in un albergo in riva, dove trangugio due tranci di torta di mele. Il sole ha fatto la sua comparsa già dalle prime luci di giornata e adesso mi prendo un po’ di tempo ad osservare la superficie del lago dal prato curato dell’albergo. Qui sono tutti in vacanza, e la pace del luogo favorisce riposo e relax.
Ho recuperato un po’ di forze, e anche un po’ di calore corporeo, ma il tutto svanisce al momento di affrontare la mortale salita che mi porta fuori dalla valle in cui si adagia il lago, per ricongiungermi alla strada principale.
Direzione Ushuaia – Salita mortale, tocca scendere, pant, pant
Direzione Ushuaia – L’ultimo valico!
Sono in cima all’ultimo valico, ho dovuto spingere la bici in salita perché la pendenza, con una bici che pesa trenta chili e le poche forze rimaste non consente di pedalare.
Inizia la discesa, e dopo poco inizia anche il tratto di strada asfaltata, a cui gli ingegneri della notte prima stanno lavorando. Sono le ultime decine di chilometri, il calo fisico e mentale dilaga incontrollato dalla testa che non riesce più a trovare i giusti stimoli, tutto si adagia sul “manca poco”.
Arriva il cartello: Ushuaia. Non sono ancora in città, è solo il cartello che segnala che ormai ci siamo, ma non riesco a trattenere le lagrime ed un pensiero per papà a cui ho voluto dedicare il viaggio e che da ormai più di un anno non c’è più.
Ushuaia!!! 31 dicembre 1999 ore 17.00
Ushuaia, la città, arriva, arrivano le case e tutto il resto. Deambulo pedalando, scatto foto e alla fine, visto che sono passate due ore abbondanti dalle fette di torta in riva al lago, mi infilo in una pasticceria per comprare zuccheri e carboidrati nelle fogge più diverse, ma buone!
Ushuaia!!! 31 dicembre 1999 ore 17.00
Ushuaia – Monumento dedicato a “Las Malvinas”
Ushuaia – Navi “all’affonda”
Trovo alloggio in un affollatissimo ostello, pieno di viaggiatori delle più diverse nazionalità e che sono arrivati li con i mezzi più diversi; c’e’ chi arriva dall’Alaska in bici, chi arriva dal Perù, sempre in bici, chi ha fatto un raid in macchina dal Brasile, insomma non sono il solo ad aver pensato di andare a la fin de el mundo a la fin de el sieglo! Riesco a trovare posto e mi infilo sotto la doccia più ustionante mai fatta in vita mia, il freddo ha preso le ossa e resto mezz’ora sotto un getto fumante per lavare via freddo, stanchezza e durezze muscolari. Sono da poco passate le cinque del pomeriggio, è il 31 dicembre 1999 e sono a Ushuaia. La notte, il tanghero più famoso d’Argentina, incanterà in mondovisione il pianeta e quarantamila viaggiatori arrivati da ogni dove per uno dei “capodisecoli” più suggestivi mai vissuti. Grazie, grazie, grazie.
Ushuaia – Parque Nacional Tierra del Fuego
Ushuaia – Final ruta 3, in borghese
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Che dire… un viaggio da paura fatto in un momento particolare… che forse ha cambiato in parte la tua vita…
La mia felicità nel leggere questo racconto è data dall’avere avuto l’opportunità di ascoltare le sensazioni di questo fantastico viaggio direttamente dalla tua voce amico mio!
Come sempre… un Abbrax dal tuo amico bulgaro Max.
Un sentito grazie a te, bulgaro Fede, perché attraverso il tuo racconto mi hai fatto sentire in sella alla tua bici, lo sforzo di ogni tua pedalata ed il battito accelerato del tuo cuore. Mi hai fatto avvertire lo sfinimento delle membra, la mancanza cronica di acqua, il freddo intenso da te patito sotto un ponticello e il vento perenne ad ostacolare la tua cavalcata solitaria in Patagonia. Però, unitamente a questi stenti, mi hai fatto anche vedere attraverso i tuoi occhi una natura unica, desolatamente bella ed austera, e mi hai fatto sentire il tepore dell’accoglienza locale. Grazie bulghy nofear, perché io un viaggio così “nofear”, al confine tra ardimento ed incoscienza, non riuscirei neppure ad immaginarmelo. Sono certo che un viaggio così porti a conoscere se stessi meglio di qualsiasi altra cosa. E tu ci sei riuscito appieno. Grazie ancora.
Abbrax. Michele